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11/11/2022
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TULLIO CIOTTI, LA MEMORIA FERITA DEGLI EX INTERNATI
“LA SOLIDARIETÀ ERA IL FIORE PIÙ BELLO CHE POTESSE FIORIRE NELLA DESOLAZIONE DI UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO”

Quella dell’umbro Tullio Ciotti, nato a Passaggio di Bettona (Pg) nel 1924, è una storia indicativa di una storia collettiva, come chiarisce da subito lo storico esperto di storia sociale Dino Renato Nardelli: riguarda la sventurata vicenda dei tanti I.M.I., gli internati militari italiani della Seconda guerra mondiale. I quali, in un certo senso, per volere dello stesso Hitler non erano “solo” prigionieri di guerra e sono stati rinchiusi nei lager in Germania, in Polonia e altrove. Naturalmente non solo italiani, ma anche polacchi, russi, francesi, belgi, inglesi, jugoslavi…
I cosiddetti I.M.I., una realtà della quale a lungo si è parlato pochissimo e verso la quale la storiografia ha le sue non lievi responsabilità, sono stati addirittura 650.000!
Il figlio di Tullio, Luigi, tra l’altro promotore di innumerevoli lotte sociali a carattere pacifista e ambientalista nonché instancabile operatore di cooperazione internazionale e fondatore dell’attivissimo circolo culturale “primomaggio” (1991) di Bastia Umbra, è coautore assieme al Nardelli di un libro agile e tuttavia intensissimo.
Esso ricostruisce questa triste storia - e la relativa memoria ferita dei sopravvissuti - già a partire dal suo evocativo titolo: I Campi di Tullio. La storia di un Internato Militare Italiano (Edizioni Era Nuova). Un primo elemento che mi pare importante da sottolineare è che “la solidarietà nei momenti difficili poteva salvare la vita”, tant’è vero che Tullio è sopravvissuto grazie alla eccezionale dedizione che l’amico Enrico Cotozzolo, dell’ospedale militare di Strehlen, ha avuto nei suoi confronti medicandogli per giorni e giorni delle ferite che il distratto, svogliato e frettoloso personale infermieristico tedesco non avrebbe mai curato con l’attenzione necessaria a salvargli la vita. Perché Tullio, come gli altri, era un numero; ma per Enrico no, tutt’altro.
Avrei dovuto dare un posto di primo piano all’esergo che apre il libro, ma in realtà mi torna più funzionale a questo punto: il pensiero vero e profondo e universale di Albert Einstein, per il quale “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire” è tanto vero quanto innumerevoli e indicibili sono stati i dolori e le sofferenze e le umiliazioni che la guerra, ogni guerra ha recato all’umanità e quanto ingiuste e assurde sono state le imposizioni che i prigionieri, i deportati e gli internati hanno dovuto subire.
Nel caso di Tullio, si è trattato di un durissimo lavoro per ventuno mesi, lui ventenne ridotto a pesare appena 35 kg, nei campi coltivati a barbabietola da zucchero prima e nella fabbricazione di autoblindo poi. Il tutto come grave espropriazione delle tutele previste dalla Convenzione internazionale di Ginevra del 1929 per i prigionieri di guerra, che appunto regolamentava il loro trattamento ed escludeva il loro impiego, per esempio, nella fabbricazione e nel trasporto delle armi.
Ogni giorno uguale al precedente, regnante l’incertezza, sempre con scarsità di informazioni. C’è un passaggio del volume che dice tutto del clima di quei campi sotto la gestione della Wermacht: “Non c’era tempo per restare solo con se stesso, per avere un attimo di intimità, per inseguire i propri pensieri, per tentare di scrivere due righe ai genitori. Solo chiacchiericci, spesso imprecazioni e odore di uomini stanchi, che andava a mischiarsi con quello ossessivo di barbabietola che lo inseguiva fin dentro le coltri”, un odore dolciastro e fortemente acre, che saliva dalle ciminiere dello zucchero ed entrava nelle narici senza mai più abbandonarle, ossessivo com’era.
Veramente commovente il momento in cui, dopo un estenuante viaggio di rientro per tappe forzate lungo 35 giorni dalla Polonia all’Italia, passando per la Germania, la Cecoslovacchia e l’Austria, Tullio può finalmente riabbracciare la madre, Assuntina Covalovo, la quale in tutto quel tempo maledetto era rimasta appesa a una cartolina della Croce Rossa. È stato davvero un abbraccio infinito.
Certo, la particolarità di Tullio è stata quella di aver sempre mantenuto, ex post, la volontà di raccontare la propria rappresentativa storia, al contrario dei tanti - forse la maggior parte - ex prigionieri che hanno preferito (sentito) di non narrare la loro pesante esperienza neanche agli aftti pfeiù stretti. Tullio, che si è molto stupito della grande attenzione ricevuta dai ragazzi della scuola ai quali era andato a parlare, ha così continuato a condividere per anni e anni la sua memoria ferita, anche in quelli non facili del lavoro in miniera, da emigrato, con il carbone belga che s’insinuava dentro i polmoni.
Una videointervista di tredici anni fa, quando lui aveva 85 anni, la trovate in rete come “Tullio Ciotti: una vita, una storia…”. Altrove lo stesso figlio Luigino ha avuto modo di rivolgersi affettuosamente, ma direi anche efficacemente al padre appena scomparso: “L’umiltà della tua condizione sociale ma la grande dignità dell’uomo sono le cose che mi hanno forgiato, così come l’amore che tu hai dimostrato per gli animali […]. Ci sono però soprattutto i valori che mi hai e ci hai insegnato: onestà, assenza di odio, amicizia, disponibilità agli altri”. E non a caso, come prima ricordato, la solidarietà era il fiore più bello che potesse fiorire nella desolazione di un campo di concentramento: anche in virtù di questo Tullio - al pari dell’amico Enrico e degli altri internati - è compresente. ▪


http://www.gazzettadiverona.it/Sr_pdf_2022/SR_Nov_22.pdf

Giuseppe Moscati