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dicono di noi
30/03/2019
Jacopo Manna

Via il bloqueo!
A colloquio con Aleida Guevara, figlia del “Che”

Nel corso di questo mese Aleida Guevara, medico pediatra e figlia del “Che”, ha percorso l’Italia con il supporto di Rete Radie Resh, storica associazione di volontariato: obiettivo la raccolta di fondi per due importanti iniziative, la creazione a L’Avana di un centro studi dedicato alla figura del padre e la fondazione in Argentina di una clinica per le malattie degli occhi in cui i bisognosi verranno curati gratis.

Su invito dell’Associazione Primo Maggio, l’11 marzo Aleida Guevara ha fatto tappa anche ad Assisi ospite della Pro Civitate Christiana nel cui auditorium ha potuto presentare al pubblico i suoi progetti e parlare dell’attuale situazione di Cuba. Al coordinamento dell’incontro ha provveduto Luigino Ciotti, presidente della Primo Maggio; per fare da interprete si è prestato il direttore della Pro Civitate don Tonio Dell’Olio, che con notevole fair play ha tradotto senza batter ciglio anche alcune stoccate che la dottoressa Guevara ha riservato alla politica culturale della Chiesa cattolica; era presente pure Gianni Minà, figura-simbolo della stampa indipendente e dell’impegno per il Terzo Mondo.

Come prevedibile, l’arrivo di questa persona dal cognome ingombrante e dalle idee non allineate alla mentalità corrente ha suscitato il malumore di una parte della destra locale, aprendo una polemica tanto sterile quanto pretestuosa: perché, anche ammesso e non concesso che Assisi debba restare inchiodata a un’idea irenica e accomodante di “città della Pace”, l’incontro era stato promosso non dalle istituzioni pubbliche ma da un centro culturale come la Pro Civitate che, pur essendo una componente fondamentale dell’identità assisana, ha sempre compiuto le sue scelte in piena autonomia.

Comunque chi si aspettava di assistere a un comizio o a una conferenza-stampa ha dovuto ricredersi: di fronte a una platea davvero affollatissima e molto reattiva, Aleida Guevara ha scelto un tono assolutamente non retorico; ha rievocato la figura del “Che” nella sua dimensione privata, di padre affettuoso, ha parlato delle proprie esperienze come volontaria nel Terzo Mondo e ha risposto in maniera non formale alle molte domande fatte dal pubblico. Ovviamente non sono mancati argomenti scottanti, dal bloqueo (le sanzioni imposte dagli Usa che soffocano la vita economica del paese) al modo fazioso con cui la stampa internazionale parla di Cuba: però senza che Aleida Guevara perdesse mai il tono amichevole e dialogante che ha caratterizzato l’intera serata.

Certo non è da una figura come la sua, totalmente identificata con la causa della rivoluzione castrista e testimone coinvolta delle molte contraddizioni in cui vive il suo popolo, che ci si può aspettare una valutazione critica e distaccata della situazione cubana: alcune delle risposte alle domande fatte durante l’incontro pubblico (o nell’intervista che troverete più sotto) sono a dir poco elusive o semplificatorie. Con tutto ciò almeno una delle cose che Aleida Guevara ha detto alla Pro Civitate, usando stavolta un tono insolitamente aspro, andrebbe presa alla lettera e ricordata sempre: non è facendo una vacanza a Cuba che si può pretendere di capire la situazione del paese e come affrontarne i molti problemi; per capire com’è fatto un popolo bisogna lavorarci assieme. L’intervista che segue ci è stata rilasciata il giorno dopo l’incontro.

Dottoressa Guevara, quali sono le ragioni per cui è proprio qui in Italia?

Perché è da molto tempo che lavoro con la solidarietà italiana: con Italia-Cuba e anche con questa organizzazione che si chiama Rete [ndr, Rete Radie Resh], anch’essa molto solidale con il Congo e il Brasile (io da più di venticinque anni collaboro col Movimento Sem Terra in Brasile).

Si è parlato molto, anche iersera, della nuova Costituzione entrata in vigore a Cuba, il cui testo prima di venire sottoposto a voto popolare è stato discusso ed emendato in base alle osservazioni proposte direttamente dalla cittadinanza. Quali sono i principali cambiamenti che potrebbe produrre?

La Costituzione attuale permette una forma di piccola proprietà privata, che non esisteva in quella precedente. Parla anche dell’aumento di investimenti di capitale straniero, sempre rispettando il principio che chi investe a Cuba lo faccia con vantaggi per il popolo cubano, altrimenti non lo si accetta. Dà maggiore ampiezza ad altri rami dell’economia nei quali prima non si investiva, e parla anche di una maggior protezione della natura: in questo senso è una costituzione molto più ampia.

Uno dei cambiamenti che ha fatto più discutere è quello del riconoscimento legale dell’unione fra persone dello stesso sesso…

Il progetto iniziale della Costituzione prevedeva un articolo, il 68, che parlava del matrimonio libero, però non è stato approvato dal popolo che nelle proposte inviate al Parlamento cubano ne ha chiesto la modifica. Ciò che accadrà è che entro due anni discuteremo il codice del diritto di famiglia e lì riproporremo la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso, perché si riconosca socialmente che se (ad esempio) un uomo vive con un altro uomo come suo compagno o suo partner sessuale possa averne il riconoscimento sociale da parte di tutti.

Secondo lei qual è il cambiamento di cui il suo paese ha più bisogno?

Che ci tolgano il bloqueo. Sarebbe fondamentale per l’economia cubana e per la vita del popolo cubano. Quando ce lo toglieranno, a Cuba fiorirà tutto. Faccio un esempio semplice: noi non produciamo latte, a Cuba non abbiamo grandi quantità di bestiame, per cui dobbiamo comperare latte in polvere per darlo ai nostri bambini e anziani. Dove lo cerchiamo, questo latte in polvere? L’Europa non ce lo vende, l’America latina ce ne vende molto poco per la pressione degli Stati Uniti, l’Argentina adesso con Macri non ce lo vende, il Brasile con Bolsonaro non ce lo vende.

Così il latte in polvere dobbiamo comperarlo in Nuova Zelanda, dalla parte opposta del pianeta; è molto costoso per Cuba perché bisogna noleggiare una nave, che non è nostra e quindi tocca pagarla. E allora che succede? Per la legge del bloqueo, se una nave raggiunge un porto di Cuba poi non può toccare più un porto statunitense per almeno sei mesi. Per cui il padrone di questa nave chiede a Cuba il prezzo di tre mesi, o più, rispetto a quanto costerebbe normalmente questo viaggio, perché deve coprirsi economicamente le spalle. Capito?

Lei ieri ha parlato di come l’informazione qui da noi venga manipolata e di come le notizie, anche quelle sul suo paese, arrivino in maniera parziale o distorta. Che cosa pensa invece dell’informazione a Cuba?

Abbiamo un’informazione molto fedele al popolo. Non permettiamo mai bugie, perché questo screditerebbe totalmente la rivoluzione. Il principio della nostra rivoluzione è l’onestà col popolo in modo tale che se si commette un errore bisogna dirlo. A questo siamo abituati perché il nostro presidente storico, Fidel Castro, era così: per esempio si era sbagliato quando stabilì la zafra di dieci milioni [ndr, nel 1970 Castro mobilitò tutta la popolazione cubana paralizzando ogni altra attività per ottenere una zafra, cioè un raccolto, di dieci milioni di tonnellate di canna da zucchero, ma l’obiettivo non venne conseguito] e lo ammise pubblicamente: “Mi sono sbagliato”. Se il presidente di un paese è capace di riconoscere questa cosa non può esserci un giornalismo falso, in alcun modo: questo viene combattuto sempre. Si tratta di dire al popolo sempre la verità maggiore e più chiara.

Durante tutti i suoi anni di volontariato all’estero, qual è la cosa che le ha fatto più impressione?

Ecco: ho avuto il privilegio di lavorare con una popolazione autoctona in Argentina, nel nord, la popolazione guaranì. Ho visto come vive questa popolazione, sembra che siano ancora al quindicesimo secolo [ndr, ci ho messo un po’ a capire che, trattandosi di un continente scoperto dagli europei alla fine del ‘400, questa espressione significa “ai tempi della preistoria”]. Si può dire: “Queste persone vivono così; perché non aiutarle a vivere un po’ meglio?” Non vuol dire trasformare la loro cultura, ma dargli la possibilità di svilupparsi nella loro cultura, che è diverso. Non imporre loro la mia, ma imparare la loro, condividere con loro le mie conoscenze per imparare da loro.

Abbiamo molte cose da imparare da questa popolazione autoctona: e abbiamo anche molto da dare; e sai perché? Perché questa popolazione, sfruttata, umiliata, quasi scomparsa, rimane salda con la sua cultura, la sua identità. Questo cosa significa? Che possiamo vivere davvero in un altro modo, che abbiamo davvero la possibilità di essere noi stessi, e non ciò che ci viene imposto nel modo di vestire, di parlare… Abbiamo la possibilità di imparare da questa popolazione autoctona a vivere meglio il rapporto con la natura, e sono molte le cose che ci possono insegnare. Però è necessario ascoltarli, è necessario proteggerli.


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