presentazione libro
Copertina libro 23 ottobre 2006

Perugia

in collaborazione con Ass. Porta S. Susanna

"Hasta la ultima piedra"
proiezione del film-documentario intervengono
Carla Mariani, Colombia, Vive! Rete italiana di solidarietà con le Comunità di Pace Colombiane,
Ruben Dario Pardo Santamaria, ACOMPAZ, Spagna
Luigino Ciotti, presidente circolo culturale primomaggio
trascrizione della serata

"Hasta la ultima piedra"

(Nota - Per problemi tecnici nella registrazione, non è stato possibile trascrivere il dibattito successivo alla conferenza. Dell'intervento in lingua spagnola di John Jairo Mena Palacios, è stata riportata la traduzione in italiano di Ruben Dario Pardo Santamaria.)

Luigino Ciotti Buonasera, grazie per essere venuti. Come circolo culturale "primomaggio" siamo legati ad un progetto che riguarda le comunità di pace colombiane, in particolare delle regioni del Chocó, dell'Urabà e del Cacarica. A questo proposito abbiamo già fatto un'iniziativa il 27 di novembre, quando furono ospiti padre Javier Giraldo, Wilson David Higuita - della comunità di San Josè de Apartadò - e Gonzalo Agudelo. Quella volta venne anche Roberto Lippi che doveva essere presente questa sera ma che per motivi legati alla sua professione - lavora a Roma come funzionario dell'ONU - oggi non è riuscito a liberarsi. È una cosa che ci dispiace perché Roberto è di Assisi ed è un nostro amico da sempre. Qui alla mia destra abbiamo John Jairo Mena Palacios mentre alla mia sinistra c'è Ruben Dario Pardo Santamaria. Mi viene da ridere a chiamarlo così perché per me è familiarmente Ruben. Con lui abbiamo fatto una visita in Colombia, eravamo una delegazione di sette persone, lo scorso anno, a marzo. Ruben era il responsabile di questa delegazione con la quale abbiamo visitato le varie comunità. Pur vivendo da alcuni anni in Italia, ha ancora molti rapporti in Colombia e dunque era stato lui a preparare il viaggio. Lui è anche il responsabile di questo coordinamento e di questa rete di solidarietà italiana alle comunità di pace di cui il comune di Narni - qui rappresentato da un funzionario dell'assessorato alla cultura, l'amica Carla Mariani - è un po' il comune capofila.

Questa rete si è molto allargata negli ultimi mesi, dopo un lavoro iniziale che è nato da un primo incontro - il convegno "Colombia vive" - che fu fatto nel 2001 in Veneto in occasione dell'ONU dei popoli. Nel 2003, nella successiva occasione dell'ONU dei popoli che è stata fatta a Terni - in particolare grazie al contributo del comune di Narni - il continuare a discutere di questi temi ha fatto sì che una serie di associazioni e di amministrazioni - compresa anche la regione dell'Umbria - si siano collegate a questa rete di solidarietà. Ciò è estremamente importante perché le comunità di pace - che sono in Colombia circa una cinquantina - nuotano un po' controcorrente e sono per questo a rischio di esistenza. Questa serata noi la dedichiamo a Luis Guerra, un amico, un compagno - che è venuto anche in Italia - e che è stato ucciso il 21 di febbraio. Ucciso dalle truppe paramilitari anche se poi il governo ha addossato ai guerriglieri delle FARC questo assassinio. Con lui sono stati uccisi anche alcuni membri della sua famiglia, compreso un figlio di 11 anni.

Credo che poi gli ospiti lo ricorderanno, ma solo la comunità di pace di San Josè ha perso oltre 120 persone su 1300 abitanti nel giro di otto anni e la comunità del Cacarica ha perso, nello stesso periodo di tempo, 80 persone su una popolazione di circa 1500 abitanti. Questo è il prezzo pesante che queste comunità devono pagare per andare contro corrente rispetto a quelli che sono gli attori armati. Lì ci sono tre attori armati anche se poi, di fatto, sono due: ci sono i guerriglieri - in particolare le FARC - ci sono le truppe paramilitari e c'è l'esercito. Di fatto però, come ha spiegato l'altra volta padre Giraldo, le truppe paramilitari sono il braccio armato - quello sporco - dell'esercito. I lavori sporchi li fanno fare alle truppe paramilitari.

Queste comunità hanno fatto la scelta basata sulla non violenza. Loro non solo rifiutano l'utilizzo delle armi ma non le tengono nemmeno. Quando si entra nel loro territorio, c'è scritto il decalogo dei loro impegni e tra questi c'è il rifiuto delle armi e della logica della violenza. Ciò nonostante - sebbene ci sia un rifiuto ideologico, morale, politico e sociale della violenza - sono loro le principali vittime dell'uso delle armi e della forza. Ricevono violenze di tutti i tipi e le uccisioni sono solo un aspetto; non l'unico, sono tante le privazioni e le cose abominevoli che sono costretti a subire. Ad esempio subiscono forme di violenza economica, come il non far transitare quelle merci - come il cacao - che danno loro la possibilità di vivere. Questa cosa l'abbiamo vista di persona quando abbiamo fatto il nostro viaggio a marzo.

Queste comunità chiedono innanzitutto che noi, nel nostro occidente, parliamo di loro e delle loro vicende e che possibilmente possiamo dare loro una mano. Non chiedono tanto il denaro, non chiedono soldi per i progetti di cooperazione, anche se poi questi sono a volte necessari. Chiedono piuttosto che ci sia sensibilizzazione, che si parli di loro e che li possiamo accompagnare - giorno per giorno, con la nostra presenza fisica - in quei territori. Ci hanno dunque chiesto di garantire il più possibile una presenza costante perché loro lì sono a rischio della vita.

Dunque, parlare di queste cose visto che di queste cose non si parla. Da noi, se muore un militare in Iraq fa notizia per giorni o per mesi. Per loro invece niente, nonostante queste cifre siano emblematiche, nonostante che dalla loro terra se ne siano dovuti andare più volte perché nei loro territori c'erano le truppe militari e quindi non ci potevano più stare. Sono ritornati nella loro terra, facendo grandi sacrifici. A San Josè oggi vivono appena due famiglie, mentre ci sono 60 militari. La comunità ha ricostruito il proprio villaggio - ovviamente in maniera molto più precaria - in un'altra zona. Il loro è un esperimento concreto che nasce da motivi religiosi ma anche morali, come scelta politica di un altro modo di fare una società e di decidere i destini della propria esistenza. Parlare di queste cose non è allora inutile, per questo abbiamo fatto un'altra iniziativa a breve distanza dall'ultima del 27 novembre. Abbiamo approfittato della presenza di John Jairo mentre Ruben è sempre qui visto che, per mancanza di soldi, non riesce a rientrare nel suo paese molto spesso (questa è peraltro una condizione che vivono tante persone originarie del sud del mondo).

Questa è un po' la fotografia della situazione informativa, in cui le cronache sono piene di analisi, di notizie - magari deformate - ma comunque notizie su certi episodi di guerra che succedono nel mondo mentre su altri c'è il più totale silenzio. È quello che succede in Colombia, uno stato che è funzionale agli interessi degli Stati Uniti d'America che hanno investito migliaia di miliardi di dollari attraverso vari piani (penso al Plan Colombia, ma non solo) in un territorio che considerano la loro enclave dentro la quale far passare un certo tipo di politica nel Sudamerica. Non ci può però sfuggire che oggi in Sudamerica ci sono grandi fermenti in tutto il continente, a cominciare dal Venezuela di Chavez. Stanno cadendo dei governi anche in Ecuador, in Bolivia, c'è il governo Lula in Brasile (anche se poi su quest'ultimo si sono avute molte delusioni). Non vi aggiungo poi quello che sta succedendo in Argentina o in Uruguay, dove per la prima volta dopo decenni è andata al governo la sinistra. Su tutto ciò credo che forse alcune riflessioni debbono essere spese, a noi sembra che il panorama dell'America Latina sia oggi estremamente interessante.

Discutere allora della Colombia significa anche intrecciare questa situazione specifica - che adesso gli ospiti ci delineeranno - con questa situazione più complessiva che c'è in tutto il continente. Un continente che sta in parte sfuggendo dal totale controllo che gli Stati Uniti d'America avevano fino a poco tempo fa (nonostante continui ancora la loro pressione, ad esempio su Cuba, a cui anche l'Unione Europea ha fatto avere la propria condanna rispetto alla questione dei diritti umani). Io mi fermo qui perché i protagonisti sono loro. Darei la parola prima a Ruben che ci inquadrerà sia la situazione della Colombia sia il lavoro della rete di solidarietà alle comunità di pace. Poi faremo parlare John Jairo che, come vedete dalle sue caratteristiche, è afro-discendente. Nella comunità del Cacarica ci sono molte persone di origine africane mentre ce ne sono meno a San Josè de Apartadò. Loro vi descriveranno brevemente la situazione, dopodichè avremo modo di dibattere con voi attraverso le vostre domande. Grazie.

Ruben Dario Pardo Santamaria Buonasera a tutti, mi scuso per il mio italiano. Non riesco ancora a parlarlo bene però tenterò di farmi capire. Vorrei dividere questi dieci-quindici minuti d'intervento in cui parlerò, in tre parti. La prima è un quadro molto rapido della Colombia, molto veloce anche perché non è la prima volta che qui si parla di Colombia. Nella seconda parte parleremo di che cosa sono queste esperienze di resistenza civile non violenta o quella che una carissima amica colombiana chiama la "geografia della speranza" in Colombia. Infine, farò un breve commento sulla rete italiana di solidarietà e su cosa tentiamo di fare.

La Colombia è un paese molto ricco con un'ubicazione geografica strategica per i piani continentali che ci sono oggi. È strategica per esempio per la realizzazione dell'ALCA, l'accordo a livello di commercio per le Americhe. È il paese che collega il Sud America con il Centro America, l'unico paese del Sud America che ha due mari. È un paese in cui si sta pensando di fare un canale intra-oceanico alternativo a quello di Panama, dove ancora non sono riusciti a finire l'autostrada panamericana che deve mettere in comunicazione tutto il continente. La Colombia è strategica per dare uno sbocco alle merci che entrano e che escono dal Brasile - che è un grosso mercato - e dal Venezuela.

Il paese ha avuto storicamente due partiti tradizionali, quello liberale e quello conservatore che, fino all'inizio del 1900, si potevano differenziare. C'erano delle differenze anche di tipo ideologico. Il partito conservatore rappresentava fondamentalmente gli interessi legati alla terra, i latifondisti, mentre quello liberale rappresentava maggiormente gli interessi legati al commercio, agli industriali, ai banchieri. Oggi come oggi sono la stessa cosa e non possiamo fare differenza tra questi due partiti politici. L'attuale presidente della Repubblica, Alvaro Uribe, è stato portato alla presidenza con l'appoggio sia del partito liberale che di quello conservatore. Non si riesce a capire bene qual è la differenza, possiamo avere un liberale che in poco tempo passa al partito conservatore senza nessun problema. Questi due partiti hanno dominato lo spettro politico colombiano, hanno escluso qualsiasi altra possibilità di partecipazione politica e tutto questo - sommato ad una situazione di ingiustizia strutturale - ha generato la creazione delle guerriglie negli anni '60. In quel periodo sono nate le FARC, sono nati l'Esercito di Liberazione Nazionale e l'Esercito Popolare di Liberazione, quest'ultimo più di tendenza cinese mentre l'Esercito di Liberazione Nazionale era più guevarista e più pro-cubano. Le FARC invece erano di estrazione contadina ma con un'influenza importante del partito comunista russo. Ancora oggi comunque - nonostante sia stata fatta una riforma costituzionale importante nel '91 - lo spettro politico colombiano continua, di fatto, ad essere dominato da questi due partite e ad essere escluso a tutti gli altri.

In Colombia, storicamente, è sempre stata massacrata l'opposizione politica e sociale. Come molti di voi sanno, il 90% dei sindacalisti uccisi nel mondo sono colombiani. È un paese a rischio per avvocati onesti, per difensori dei diritti umani, per professori, per politici onesti. L'unico paese al mondo dove, in un solo anno, sono stati uccisi tre candidati alla presidenza della Repubblica (due candidati di sinistra e uno liberale che si era spostato leggermente a sinistra). Neanche questo è tollerato in Colombia. È stato sterminato un intero movimento politico che si chiama Unione Patriottica; più di 3500 militanti dell'Unione Patriottica sono stati massacrati nel giro di pochissimi anni, senza che nessuno, all'interno o all'esterno della Colombia, facesse sentire la propria voce per fermare questo massacro. È poi un paese dove si esercita una violenza molto forte contro i leader dei movimenti sociali, sia contadini che nelle città.

Fino agli anni '80 il conflitto in Colombia si poteva leggere come la sfida dei movimenti della guerriglia contro lo stato. Negli anni '80, cresce il narcotraffico e di conseguenza cresce anche il movimento paramilitare. Molti narcotrafficanti diventano latifondisti e reagiscono in maniera molto violenta contro quella specie di tassa che la guerriglia faceva pagare ai proprietari terrieri e ai proprietari di attività produttive. I nuovi latifondisti si alleano allora con i vecchi latifondisti, con gli industriali, con l'esercito e rafforzano la strategia paramilitare che in Colombia esisteva ancora prima del sorgere delle guerriglie. Ora sono diventati dei veri e propri eserciti. I paramilitari sono degli eserciti privati molto potenti al servizio dei poteri locali regionali. Fondamentalmente, curano lo status-quo locale e regionale. E lottano contro qualsiasi tipo di opposizione politica o sociale a tale status-quo. Negli ultimi anni si sono verificati degli scontri militari tra la guerriglia e i paramilitari e i militari bombardano sempre in favore di quest'ultimi. Io non credo che il narcotraffico sia la ragione principale della violenza, ma credo anche che una delle conseguenze fondamentali più negative del narcotraffico a livello di violenza è che sia riuscita a trasformare quasi totalmente la violenza verticale (si lotta per avere il controllo politico del paese) in una violenza orizzontale dove ci sono molti gruppi che tentano di avere più influenza sociale e non tanto influenza politica. Questo è grave anche perché ha superato i confini di delimitazione tra le forze politico-militari e la delinquenza comune. Oggi troviamo senza problemi che un gruppo di delinquenza organizzata possa sequestrare delle persone per venderle sia alla guerriglia che ai paramilitari o possa ammazzare un sindacalista a richiesta dei militari o dei paramilitari.

In questo contesto, il movimento sociale ha ovviamente sofferto tantissimo perché in Colombia tutti i gruppi armati hanno considerato la popolazione civile solo come una semplice risorsa strategica. E la popolazione civile ha sofferto in modo particolare la guerra negli ultimi 20 anni, in cui i paramilitari hanno aumentato la loro influenza e in cui la guerriglia ha reagito con ancora più forza all'attacco del nemico. Però la forza è stata esercitata sulla popolazione civile, i paramilitari andavano a massacrare dei contadini che loro sospettavano fossero la base sociale della guerriglia e quest'ultima faceva, in alcune occasioni, altrettanto. I paramilitari sono riusciti a rendere la guerriglia più barbara. Diciamo che oggi i rapporti tra la guerriglia e la popolazione civile sono diventati più verticali perché, siccome la guerra è diventata più intensa, all'interno del movimento guerrigliero domina l'ala militarista sul settore politico.

Comunque io credo che i paramilitari siano oggi i principali violatori dei diritti umani in Colombia e che non si possono mettere, nonostante tutti i loro sbagli, sullo stesso piano dei guerriglieri. La guerriglia continua, nonostante tutto - perché ovviamente dopo 40 anni di guerra non è la stessa guerriglia romantica degli anni '60 - ad essere un soggetto politico-militare con cui si deve cercare un'uscita politica al conflitto armato. I paramilitari sono - a mio avviso - la delinquenza più organizzata che possiamo trovare oggi in Colombia.

In questo contesto, ci sono le proposte che vengono dai settori più vittimizzate dalla guerra: gli indigeni, i contadini, gli afro-colombiani, le donne, che si sono organizzate per tentare di creare, anche in maniera molto intelligente, delle alternative per vivere in mezzo alla guerra, per non essere cacciati via o almeno per ritornare al loro territorio e continuare a vivere. Come diceva Luigino, molte di queste comunità sono già state cacciate via nel '97 (almeno nella regione che confina con il Panama) con un'operazione militare chiamata "Génesis". Nel giro di pochissimi giorni sono state cacciate via più di 15 mila persone. Loro, dopo quattro anni, sono tornati nel loro territorio, organizzati con una proposta di neutralità di fronte alla guerra, di fronte agli attori armati ma non di fronte alla vita. Denunciano le violazioni commesse da tutti i gruppi armati e si impegnano a non portare armi, a non dare informazioni, a non intervenire direttamente o indirettamente nella guerra. Non reagiscono alle sopraffazioni con la violenza ma - attraverso la solidarietà della comunità - con la denuncia a livello nazionale e internazionale. Questa è una cosa molto importante in un paese che ha una media annuale di 25 mila morti violenti all'anno. Loro resistono al terrore che in Colombia è usata spesso come strategia. Come diceva prima Luigino, lo scorso 21 febbraio l'esercito ha ammazzato otto persone a San Josè de Apartadò, peraltro in una maniera molto barbara: vi dico solo che non hanno speso un solo colpo per ammazzare tre bambini, due donne e il nostro carissimo Luis Eduardo Guerra, più altre persone della comunità, mandando poi il messaggio al resto della gente che dovevano andare via.

La gente comunque è rimasta. Non è facile ovviamente rimanere dopo una tragedia così. Rimane e continua a resistere in maniera non violenta. Resistono anche alla tentazione della vendetta, una cosa veramente molto importante da cui credo abbiamo da imparare tutti. John Jairo viene oggi a presentarci e a condividere una resistenza, non solo alla guerra, non solo ai militari, ma all'intera proposta neoliberista e a quelle che ne sono le manifestazioni più drammatiche. Nel loro piccolo, loro presentano una proposta di democrazia vera, una proposta differente di economia. A San Josè mi dicevano: << Per noi l'economia è una cosa al cui centro ci sono i bisogni fondamentali della gente.>> Quindi non l'accumulazione, ma i bisogni fondamentali della gente. Ci sono quelli che hanno di più, alcuni che hanno di meno - è normale - ma loro si preoccupano che nessuno vada a letto senza mangiare. Io credo che da loro si possa imparare tantissimo, credo che anche le accademie e le università dovrebbero guardare a queste esperienze che sono proprio molto interessanti. Loro fanno una proposta molto chiara anche sul rapporto con la natura. La comunità del Cacarica si stanno scontrando con alcune multinazionali che sfruttano in maniera illegale il legno, che massacrano i pesci, perché per portare via il legno bisogna mettere un veleno che fa morire tantissimi pesci. Le multinazionali portano i paramilitari e - in un contesto come quello - protestare non basta e ti può costare la vita. Nonostante ciò, continuano a resistere.

Quello che dunque voglio dire è che in Colombia, oltre alla realtà che conosciamo - di narcotraffico e di conflitto armato - c'è pure una realtà di resistenza non violenta che è sconosciuta anche all'interno del paese stesso e da cui c'è tanto da imparare. Un carissimo amico che si chiama Eduardo Galeano - che forse conoscete anche voi - raccontava una storia molto bella, la racconto in un minuto. Raccontava che i prigionieri politici dell'Uruguay non potevano fischiare, non potevano cantare, non potevano salutarsi tra di loro, non potevano ricevere niente che fosse associato all'idea di libertà. Tra di loro c'era un professore, Juan Valdes, che aveva una figlia di sei anni che si chiamava Monica. Monica aveva fatto un disegno da portare la domenica alla visita a suo padre e in cui aveva disegnato degli uccelli. Quando è arrivata in carcere con sua madre, la guardia all'entrata ha tirato fuori dalla borsa di Monica il disegno, ha detto: " Gli uccelli non vanno bene perché hanno le ali che servono a volare. C'è troppa libertà " e lo ha strappato in mille pezzi. Il padre la ha consolata dicendole che non faceva niente. La volta successiva, Monica ha disegnato un grosso albero, con delle radici molto grandi e la guardia l'ha fatto passare perché non dava - secondo lui - l'idea di libertà. Juan era molto contento del disegno e nel vederlo ha notato dei puntini. Ha chiesto allora a Monica che cosa erano. "Sono delle mele, sono delle arance?" E lei si è avvicinata in maniera molto tenera e le ha detto: "Schh, no, sono gli occhi degli uccelli che ti ho portato nascosti nell'albero." A me piace fare questo racconto, perché è un po' il tipo di resistenza che stanno facendo le comunità di pace colombiane. Una resistenza che ha un alto contenuto di tenerezza, di creatività e soprattutto di testardaggine - nel senso più positivo del termine - e di coraggio.

Io chiudo il mio intervento dicendo due parole sulla rete di solidarietà italiana, che è nata nel maggio del 2003 a Narni. Narni è il comune capofila delle rete, una rete particolare che mette insieme enti locali - che sono società politiche - e associazioni come Amnesty International o il circolo primomaggio che invece sono società civile. È dunque interessante questa attività che è riuscita a mettere insieme due realtà socio-politiche che non sempre hanno un'azione congiunta (particolarmente per attività di cooperazione internazionale). Noi tentiamo fondamentalmente di fare due cose. La prima è visibilizzare in Italia queste esperienze - raccontando che esistono - e la seconda cercare di proteggerle. Fino ad ora, la nostra azione principale è stata la solidarietà politica. A Narni abbiamo creato un piccolo osservatorio a cui, dalla Colombia, arrivano le denunce delle comunità. Noi generalmente ne facciamo il riassunto, la traduzione in italiano e poi facciamo la proposta in spagnolo da inviare o allo stato colombiano o al gruppo armato a seconda di chi ha commesso la violazione denunciata. Quando ci sono delle violazioni gravi, allora chiediamo a tutti quanti - sia agli amici della rete sia a persone che non ne fanno parte ma che sono interessate a questo argomento - di inviare insieme a noi la proposta che facciamo in Colombia oppure di fare una lettera di iniziativa propria: questo perché fino ad ora la pressione internazionale si è rilevata piuttosto efficace, anche se non sempre si hanno avuto i risultati sperati. Ci sono però alcuni casi in cui o siamo riusciti ad evitare delle tragedie o almeno abbiamo fatto preoccupare il governo.

Per quanto riguarda il caso concreto del massacro di San Josè, sia il 21 marzo che il 21 aprile dei nostri compagni sono andati di fronte all'ambasciata colombiana a Roma per ribadire che noi non dimentichiamo che - nonostante siano passati due mesi - ancora nessuno è andato in galera. Abbiamo poi tentato di fare alcune visite in Colombia - sicuramente quest'anno ne faremo una - e inoltre faremo la terza edizione del forum "Colombia vive" che cerca di visibilizzare queste esperienze. Io concluderei qua, lascio la parola a John Jairo.

John Jairo Mena Palacios Ringrazio la rete e tutte le persone che hanno reso possibile che oggi io possa dirvi quella verità che non si conosce sulla Colombia. Sono John Jairo Mena e spero che il messaggio che vi porterò possa essere diffuso anche da voi. Sono contento di essere qui ma anche un po' preoccupato perché questo messaggio - che posso oggi condividere con voi - può arrivare in Colombia e mettere a rischio la mia vita e quella di altre persone della mia comunità. Comunque lo faccio con amore, con coraggio e con etica.

Siamo stati sfollati nel 1997 dal 24 al 28 febbraio da un'operazione militare chiamata Génesis, promossa dal comandante Rito Alejo del Rio, comandante della diciassettesima brigata dell'esercito. L'operazione è stata realizzata congiuntamente dai militari e dai paramilitari che ordinavano alla gente di abbandonare le loro case e di andare via dal territorio entro tre o quattro giorni. Questi militari e paramilitari hanno ucciso tantissime persone. Alcuni dei civili hanno attraversato il confine con il Panama mentre altri sono arrivati nella città di Turbo. Qui ci aspettava la polizia che ha registrato i nostri nomi e ci ha portato al palazzetto dello sport. È stata un'esperienza molto triste perché abbiamo perduto quasi la nostra identità - non ti identificavano più con il tuo nome ma ti chiamavano solo lo "sfollato" - e perché ci davano le colpe di tutte le malattie che c'erano nella città. Un'esperienza comunque molto negativa, dal punto di vista morale, culturale e fisico.

Noi, fin da quando siamo stati sfollati, avevamo deciso di ritornare nel nostro territorio per cui abbiamo tracciato degli impegni per vivere in mezzo alla guerra. Noi pensiamo che gli attori del conflitto armato siano due e non tre - come dicono molti - e sono la guerriglia da una parte e i militari e i paramilitari dall'altra. Noi non vogliamo stare nella città, non sappiamo vivere nella città; come contadini siamo vivere e ben comportarci solo nei campi, solo nelle aree rurali. Abbiamo dunque stabilito delle norme per vivere in mezzo alla guerra e ciò non doveva essere fatto solo a parole ma molto seriamente. Quindi tutte le persone che volevano tornare nel nostro territorio firmavano queste norme in un documento in cui si impegnavano a rispettarle. Alcune di queste norme erano: non portare armi, non dare informazioni a nessuno degli attori armati, non intervenire direttamente o indirettamente nella guerra.

Abbiamo creato inoltre un comitato di dialogo che doveva concertare con il governo nazionale - che è stato colpevole del nostro sfollamento forzato - il ritorno nei nostri territori. Approfittando della visita di alcuni vescovi, abbiamo chiesto un appuntamento con il presidente della Repubblica Ernesto Samper. Abbiamo portato al presidente - insieme alle foto delle vittime che fino a quel momento erano circa sessanta - una richiesta in cinque punti. Questi cinque punti erano: la richiesta della proprietà collettiva delle terre, la costruzione di due villaggi nei territori dove stavamo, un programma di sviluppo comunitario, la protezione non armata da parte dello stato e la riparazione morale. Avevamo deciso di non tornare fino a che il governo non avesse fatto realtà di queste richieste, ma questo non è successo.

Dopo tre anni, non abbiamo resistito più in città e siamo tornati dopo che il governo ha concesso la nostra prima richiesta - cioè la proprietà collettiva delle terre - in cui ci sono stati dati 103024 ettari. Il governo ha compiuto solo il 35% degli impegni assunti, rispondendo solamente sulle case che avevamo chiesto e sulla protezione non armata. Chiedevamo anche una casa della giustizia dove fosse presente uno stato civile che da una parte potesse verificare se noi eravamo fedeli ai nostri principi di neutralità e dall'altra potesse essere testimone delle violazioni ai diritti umani commesse dagli attori armati. Per la riparazione morale, chiedevamo la costruzione di tre monumenti sul fiume Atrato - che potessero ricordare lo sfollamento forzato di cui siamo state vittime - e la realizzazione di un libro e di un film. Qualcosa lo abbiamo fatto noi ma senza l'appoggio del governo.

Siamo allora ritornati in tre tappe, la prima il 28 febbraio (che per noi è il giorno della memoria visto che è stato il giorno più drammatico dello sfollamento del '97). La seconda tappa, in cui sono rientrate anche le famiglie che avevano attraversato il confine con il Panama, è avvenuta il 13 ottobre del 2000 mentre la terza il primo marzo del 2001. Ma già il 7 giugno c'è stata un'altra invasione paramilitare. I militari e i paramilitari che sono venuti nel '97 ci avevano cacciati via con il pretesto di combattere la guerriglia. Ma quando siamo andati via, loro ci sono venuti dietro in città. E quando siamo poi ritornati nel nostro territorio, loro ancora una volta erano dietro a noi. Questo ci fa capire che non vogliono combattere la guerriglia ma che sono interessati a combatterci ed a appropriarsi del nostro territorio (e il nostro territorio è molto ricco, essendo il Chocó una delle regioni con più biodiversità al mondo). I paramilitari, in questa nuova invasione, si sono radicati dentro il nostro territorio, hanno ucciso delle persone e ne hanno torturate altre. Il governo non risponde chiaramente, per noi sono dei complici dei paramilitari. Abbiamo sempre visto i militari e i paramilitari agire insieme. Fino a due mesi fa, quando sono uscito dalla comunità, le vittime erano 83. Da allora ho avuto dei problemi per comunicare per cui non so al momento quale sia la situazione.

Dopo questa invasione, la comunità ha deciso di organizzarsi in quello che noi chiamiamo "zone umanitarie": i due villaggi in cui viviamo sono diventati delle zone ispirate al modello del condominio delle città. C'è una proprietà privata racchiusa da fili spinati, i quali hanno un valore simbolico e che sta a significare che nessuna persona armata può entrare. Questa struttura ci permette di vedere se i gruppi armati si avvicinano e attuare eventualmente l'allerta preventiva, telefonando a Bogotà e facendo rumore a livello nazionale e internazionale. Spesso questo modo di difenderci ha funzionato. Dal 2003 l'esercito circonda le nostre zone umanitarie, tenta di corrompere i nostri giovani e accusa i leader della comunità di essere guerriglieri. Noi rispondiamo dicendo che non possiamo dialogare con nessun attore armato.

Nella comunità, abbiamo un progetto di vita in cinque principi che ci permettono di distinguerci in mezzo alla guerra come popolazione civile non armata. I cinque principi sono rappresentati dalle cinque dita della mano e sono: la verità (noi diciamo la verità su chi viola i diritti fondamentali, su chi ci ha ucciso o chi ci ha torturato), la libertà (di espressione e di accesso ai diritti fondamentali), la giustizia (in duplice senso. Chiediamo giustizia contro gli autori materiali e intellettuali dello sfollamento e delle violazioni che abbiamo subito. Ma la giustizia è anche il valore che regola i rapporti all'interno della comunità), la solidarietà (grazie alla solidarietà italiana, oggi sono presente qua. Noi siamo solidali all'interno della comunità e quelli che sono gli ultimi - cioè gli anziani, le vedove, i bambini - sono i primi nel nostro progetto di vita. Ma siamo solidali anche con le altre comunità indigine, afro-colombiane e contadine che subiscono come noi la violenza) e infine la fraternità. Per fraternità intendiamo stabilire un rapporto fraterno con la natura e la rappresentiamo con il color caffè. Questi cinque principi danno alla comunità autodeterminazione, vita e dignità. CAVIDA - che è il nome della comunità - ci permette di resistere alla guerra in maniera civile e non armata.

Abbiamo poi costituito un comitato di educazione della comunità che lotta per un'educazione indipendente. Portiamo avanti un progetto di educazione in cui i professori sono membri della comunità, anche se poi non vengono riconosciuti né pagati dallo stato. Pertanto lo studio dei nostri bambini non è riconosciuto dallo stato e non vengono loro assegnati dei titoli di studio. Questo però non ci interessa perché la cosa più importante è che possano imparare da un'educazione che si armonizzi con il nostro progetto di vita, di neutralità e di non violenza. La struttura organizzativa funziona invece così: c'è un'assemblea generale - di cui fanno parte tutti gli uomini e le donne dai 15 anni in su - e un comitato di coordinamento, formato da 26 persone. Ci sono poi altri comitati: della cultura, degli anziani (che chiamiamo "matriarcas y patriarcas"), di bambini e di bambine, un comitato che si occupa dell'economia in situazione di guerra. Siamo 250 famiglie, 1200 persone, di cui il 50% sono bambini o giovani tra gli 0 e i 18 anni.

Nelle nostre zone umanitarie, abbiamo fatto cinque incontri internazionali e ad essi hanno partecipato molte organizzazioni internazionali. Abbiamo fatto gemellaggi con organizzazioni di San Salvador, dell'Ecuador, del Brasile, dell'Argentina e anche con molte associazioni colombiane. Il comitato di cultura ha fatto inoltre due bellissimi CD - con delle canzoni che parlano della nostra denuncia, della nostra lotta e della nostra speranza - e anche un libro, che si intitola "Somos tierra de esta tierra". Grazie per avermi ascoltato, grazie se racconterete ad altre persone quello che avete sentito qui questa sera. È molto importante per noi in Colombia avere una presenza internazionale che è anche una misura di protezione. Ci sono infatti molti amici stranieri che formano una specie di cordone umano che ci protegge. Colgo anche l'occasione per invitarvi a venire un giorno a visitarci. Grazie.