presentazione libro
io sono un nuba 6 maggio 2005

Bastia Umbra


L'Africa dimenticata

presentazione del libro "Io sono un Nuba"
di p. Renato Kizito Sesana


con p. Renato Kizito Sesana - missionario comboniano a Nairobi (Kenia)

Gianmarco Elia - presidente associazione AMANI

introduce: Luigino Ciotti - Presidente Circolo Culturale "primomaggio"

l'incontro con p. Renato Kizito Sesana

Nota: In queste pagine è riportata la trascrizione dell’incontro con Padre Kizito Sesana e Gianmarco Elia. Il testo scritto ha subito leggere modificazioni rispetto a quello che è stato effettivamente detto solo da un punto di vista della sintassi e dell’ortografia delle frasi, ma non dal punto di vista contenutistico. Purtroppo dalla sbobinatura che è stata fatta, non è stato possibile estrarre l’introduzione iniziale di Luigino Ciotti e parte della risposta di Padre Kizito Sesana relativamente alla sua esperienza da Cristiano, nella parte finale del testo.

Padre Kizito Sesana. Buonasera, grazie per avermi invitato qui con voi. Cercherò di fare un intervento abbastanza breve così da dare spazio alle vostre domande e poi rispondere in modo da essere sicuro da toccare le cose che a voi interessano. Direi che l’esperienza che si racconta in questo libro nasce, come tutte le altre mie esperienze in Africa, dal fatto di essermi lasciato condurre un po’ dagli Africani. Io ho cominciato a viaggiare in Africa nel ’71, quando ho cominciato a lavorare a Nigrizia, e poi mi ci sono stabilito, sostanzialmente dal ’77, prima in Zambia e poi dall’88 a Nairobi. Per mia attitudine personale e anche perché mi sembrava l’atteggiamento giusto da tenere, fin dall’inizio ho cercato di fare silenzio, osservare molto, ascoltare moltissimo, lasciare che fossero gli Africani a dirmi cosa si aspettavano da me piuttosto che prendere l’iniziativa. Questo mi ha portato a fare riflessione e a scoprire diverse cose, per esempio che gli Africani si aspettavano da me informazione e formazione, si aspettavano che li aiutassi a crescere come persone umane, che li aiutassi a guardare aldilà del loro mondo; gli Africani si aspettavano da me quindi un’introduzione a saper leggere la realtà del mondo di oggi, il mondo in cui vivevamo in quel momento e riflettere insieme lasciando spazio anche alla loro libertà e alla loro creatività. Da allora mi sono sempre lasciato un po’ condurre da loro, nel senso che le iniziative che facciamo qui, sono tutte nate o direttamente dagli Africani o come risposta a richieste che venivano da loro. Non abbiamo mai fatto progetti pensati qui e portati giù, ma neanche io ho pensato progetti per la gente in mezzo alla quale vivevo. Ho lasciato che fossero loro a interpellarmi e poi insieme abbiamo reagito di fronte alla realtà che avevamo intorno. Così sono nati i progetti per i bambini di strada, sono nate le comunità che cercano di fare un servizio alla gente che hanno intorno. Così sono nate anche le cose più banali e più semplici, le attività sportive per i giovani che cerchiamo di organizzare nel nostro quartiere. Così è nata la scuola di computer, le diverse attività di impegno; così sono nate per esempio anche le attività di microcredito perché sono state richieste che ci sono venute dalla gente. In questo modo ci siamo trovati coinvolti in centri per bambini di strada, adesso ne abbiamo uno a Lusaka e tre a Nairobi dove facciamo accoglienza per i bambini che sono nelle situazioni più disperate e tutto un lavoro di crescita umana a quelli che ai bambini sono collegati; perché i bambini hanno delle mamme, hanno una qualche forma di famiglia che sopravvive alle spalle, hanno dei fratelli maggiori, delle sorelle maggiori e adagio adagio, attraverso i bambini, cerchiamo di raggiungere tutte le persone che in qualche modo ci pongono delle richieste, ci interpellano per fare degli interventi. Ma sempre insieme agli Africani, sempre con loro, sempre con la loro comunità. Nella realtà in cui vivo io, abitualmente sono l’unico non Africano.

Così è stato anche con i Nuba. Quando sono arrivato in Kenya nell’88, il movimento di liberazione di allora faceva prigionieri missionari (ho avuto alcuni dei miei confratelli che sono stati prigionieri, anche se nessuno è stato in nessun modo né ferito né ucciso). Era una situazione di grande difficoltà, quindi sono stato portato ad interessarmi e poi mi è stato richiesto ad un certo punto di fare da intermediario in alcune situazioni difficili: mi sono allora prestato ad andare in Sudan dove non era ancora rientrato nessuno dei missionari dopo l’espulsione nel 1964 e poi le difficoltà del 1983. Allora un giorno, come racconto nel libro, viene nella casa della mia comunità a Nairobi, bussa alla porta un signore di poco più di 40 anni e mi dice: " Io sono Yusuf Kuwa, sono il leader dei Nuba e sono venuto a chiederti se vieni a visitarci perché ho sentito che tu vai in posti difficili, in posti dove magari gli altri missionari non intervengono e se tu vuoi io ti invito a venire in mezzo a noi. Ci sono delle comunità cristiane, ci sono dei Cattolici che hanno bisogno di aiuto". E lì è incominciato il mio coinvolgimento con i Nuba ed è cominciato qua anche il coinvolgimento di Gian Marco e di Amani. Da notare Yusuf Kuwa (purtroppo è morto nel 2001 di cancro) era mussulmano ed è venuto a chiedere il mio intervento, a chiedermi di andare ad aiutare i Cristiani che vivevano nelle aree controllate dal movimento di liberazione. Non è stato facile perché le montagne in cui vivono i Nuba (in realtà sono delle colline più che delle montagne che arrivano fino ai 1500-1800 metri d’altezza partendo da una pianura che è a circa, mediamente, a 400 m a livello del mare) sono posti isolati, con due grandissimi ostacoli naturali: a sud ci sono le paludi e il Nilo da attraversare, a nord c’è il deserto. I Nuba sembra che siano arrivati lì venendo da diverse parti dell’Africa, questo spiega perché ci siano tante lingue: la popolazione è di circa 2 milioni di abitanti e parlano tante lingue diverse perché sembra che abbiano tante origini diverse. Questo è rimasto per secoli un pezzo incontaminato d’Africa, dove gli Inglesi avevano proibito ai missionari di operare, avevano tenuto questa zona anche avvalendosi delle difficoltà geografiche di accedervi come una specie di zoo umano, cui non si poteva entrare. I Nuba furono fatti conoscere al mondo da due grandi fotografi. Rogers, un inglese che alla fine degli anni ’40 aveva riportato da una visita sui monti Nuba delle splendide fotografie; e poi dalla famosa fotografa tedesca, che è morta l’anno scorso e che aveva oltre 100 anni, Leni Riefenstahl e che negli anni ’70 ne aveva fatto delle splendide fotografie a colori.

Quando a me è venuto questo invito, non è parso vero di poter andare a vedere questa gente di cui avevo letto, avevo studiato. Allora ci siamo organizzati, come dicevo non è stato facile. La prima volta dovevamo entrare io, Gianmarco e altri due o tre amici e ci hanno informato che non si poteva andare perché c’era in corso una battaglia nel posto in cui avremmo dovuto atterrare. Un particolare da notare: stiamo parlando del Sudan che è un paese di 2 milione e mezzo di km2, quindi è più grande dei 15 paesi della Comunità Europea, nove volte l’Italia. Quando parliamo dei Nuba parliamo di una zona che è grande come l’Austria con 2 milioni di persone. Andarci da Nairobi significa fare 1000 km per raggiungere il confine con il Sudan e poi fare 1200 km per arrivare nel centro del paese. Quindi ci sono difficoltà notevoli da superare, in un paese in guerra, in un posto che il governo aveva dichiarato off-limits, non si poteva accedere, era proibito agli stranieri accedere, non volevano che nessuno vedesse quello che stava succedendo. Quindi si era lì illegalmente. La seconda volta che abbiamo tentato di entrare, l’ho fatto con un dottore italiano, il dottor Meo di una piccola ONG di Torino, il CCM, era il maggio del ’95: il dottor Meo è andato dentro prima, in una zona più sicura, è stato lì per una settimana. Io dovevo raggiungerlo con un aereo e dovevamo procedere insieme per i Monti Nuba. Invece quando sono arrivato dove lui era, ho scoperto che era stato fatto prigioniero dai governativi mezz’ora prima e poi era stato portato a Karthoum (forse qualcuno di voi se la ricorda la storia) ed è stato per cinquanta giorni prigioniero del governo mentre il nostro ministero degli esteri tentava di intervenire per ottenere il rilascio: poi è stato rilasciato per l’intervento del ministero.

Finalmente siamo entrati nell’agosto del ’95 e abbiamo trovato questa realtà dal punto di vista umano e cristiano veramente straordinaria: prima di tutto la maggioranza dei Nuba, Mussulmani, che conviveva con una minoranza di Cristiani e di Cattolici senza nessun problema di convivenza tra di loro. Anche se il governo cercava di imporre la sharia, la legge islamica, la religione islamica, la lingua araba su tutti, però non ci sono riusciti perché tutti si sono rifiutati all’idea che Dio fosse di parte. Un grande rispetto per tutti, un grande rispetto per tutte le religione, veramente una grande lezione di civiltà. In un posto dove un governo stava cercando di usare la religione per dividere, questa gente poteva convivere tranquillamente avendo per esempio nella stessa famiglia i genitori mussulmani, due figli cristiani, due figli delle religioni tradizionali, altri due o tre figli che seguivano l’ Islam. Questo senza che costituisse un problema per nessuno. Una grande lezione veramente, in un mondo dove si cerca di fare diventare Dio un Dio di parte e le religioni vengono usate per dividere più che per unire. E poi come comunità cattolica abbiamo trovato i pochi Cattolici rimasti, dopo dieci anni che non vedevano un prete, in una situazione di persecuzione da parte del governo, che avevano fatto miracoli, avevano creato altre comunità, avevano continuato ad espandersi e avevano fatto un lavoro in profondità anche di crescita per le persone umane in genere. In questa realtà, così come poi è descritta nel libro, con l’evoluzione che c’è stata in questi dieci anni, dal ’95 a oggi, abbiamo visto, all’inizio, un vero e proprio tentativo di genocidio, da parte del governo di Karthoum, di eliminare il popolo Nuba. Ad un certo punto il governo, quando ha visto che anche i Mussulmani Nuba non accettavano le imposizioni governative, ha decretato la jihad, la guerra santa, contro tutti i Nuba, anche contro i Nuba Mussulmani, perché il sillogismo era “siccome si ribellano ad un governo che è un governo mussulmano, non sono Mussulmani veri, sono eretici e devono essere eliminati”. Questo era la posizione del governo di Karthoum. Quindi abbiamo visto per qualche anno un tentativo sistematico di annientare i Nuba, impedendo che la gente ricevesse aiuti medici, favorendo la diffusione delle malattie, cercando di far morire i Nuba per la guerra, facendoli schiavi, favorendo la violenza sulle donne per creare una generazioni di bambini che non fossero più Nuba autentici geneticamente. Quindi tutto un sistema metodico per eliminare i Nuba. Quando sembrava che il governo si fosse ormai rassegnato al fatto di non riuscire ad eliminarli, c’è stata la morte di Yusuf Kuwa, nel marzo del 2001, e si è scatenata una grossissima offensiva militare per cercare veramente di dare l’ultimo colpo alla resistenza Nuba, con 8 colonne militari che si sono mosse contemporaneamente per accerchiarli e distruggerli. A questo loro hanno resistito, con gravi perdite, finché il governo si è ritirato e finché poi finalmente si è incominciato a parlare di pace. C’è stato prima un cessate il fuoco nel gennaio del 2002, poi, nel gennaio di quest’anno è stata firmata una pace comprensiva di tutto il Sudan.

Quindi in questo momento c’è pace, non siamo sicuri che sia una pace che durerà a lungo perché il trattato è estremamente complicato, ha clausole difficili, complicate, minuziose, prevede nei dettagli come si svilupperà il cammino che dovrà essere fatto per andare verso un referendum tra sei anni: e sei anni sono lunghissimi e può succedere ancora di tutto. Il modo per aiutare i Nuba in questo momento e aiutare tutti i Sudanesi perché restino in pace è di tenere gli occhi puntati su di loro, far percepire al governo che c’è un’attenzione internazionale e che quindi devono stare attenti prima di fare dei passi indietro. Però purtroppo c’è il gravissimo problema del Darfur, che non è problema nato a caso: lì c’è il petrolio e poi la cosa ancora più grave è che questo problema è nato poche settimane dopo che le due parti si sono sedute al tavolo della pace, che i ribelli del sud e il governo di Karthoum si sono seduti al tavolo della pace. Tutto fa pensare che ci siano delle forze che non vogliono la pace in Sudan. Per ragioni diverse la guerra fa comodo, l’instabilità fa comodo e quindi il Darfur è usato come pretesto, come impedimento ad una pace duratura. A differenza di quello che succedeva nelle altre parti del Sudan, per esempio sui monti Nuba (dove c’era una guerra di cui tutti erano consapevoli, cioè i Nuba sapevano benissimo perché erano in una posizione di resistenza contro il governo di Karthoum, erano consapevoli che la loro era una lotta per non essere arabizzati, per non diventare fondamentalisti mussulmani), in Darfur l’impressione è che la povera gente che è morta fino ad ora, forse 200000-300000 persone in questi ultimi due anni, si è trovata in mezzo a due gruppi che si fanno la guerra ma senza sapere il perché. Poche settimane fa, ho trovato un piccolo mercante arabo del Darfur, Arabo culturalmente, dal punto di vista etnico molto nero, una persona senz’altro con tantissimo sangue nero delle genti del sud: era un piccolo mercante in un villaggio del Darfur e lui mi diceva, mi raccontava la sua storia, che il suo villaggio è stato attaccato e distrutto all’inizio del conflitto e nessuno aveva capito perché. E non lo sapranno mai perché sono morti prima di poterci pensare. Raccontava come sono venute delle milizie che hanno chiamato Janjawid, che vuol dire diavoli a cavallo. Questi Janjawid sono arrivati e hanno messo il villaggio a ferro e fuoco, hanno incendiato le capanne, hanno ammazzato tutti quelli che vedevano in giro. Lui si è salvato con una ferita alla gola, che hanno tentato di tagliargli (è stato fortunatissimo, si vede che gli è uscito il sangue ma la ferita non era sufficientemente profonda. E gli hanno dato una pugnalato al cuore, ma non l’hanno preso al cuore. Ha una ferita ancora molto visibile, molto grossa appena sopra il cuore e l’hanno lasciato per morto). Sarebbe morto se non fosse stato che una sua vicina di casa, che per caso era una donna Nuba e chi si era sporcata involontariamente del sangue dei suoi familiari e a quel punto i Janjawid pensavano che fosse morta perché era tutta coperta di sangue. Questa donna, quando tutti sono andati via, si è alzata, è andata in giro a vedere se ci fosse qualche sopravvissuto, ha trovato questo signore che si chiama Mohamed Ali Mohamed (più mussulmano di così!): e questa signora ha caricato Mohamed su un asinello e l’ha portato ad Al Junaynah che è la capitale della regione in cui si trovava il loro villaggio. Ma senza sapere perché. E moltissima gente in Darfur è morta così, senza sapere perché questa guerra si è scatenata su di loro.

Noi, come Amani, come Koinonia, il gruppo di Nairobi, il gruppo degli Africani di Nairobi, cerchiamo di fare qualcosa per reagire in queste situazioni e per tirar fuori le risorse più belle, più genuine, più autenticamente africane. Sono loro che reagiscono, che si inventano cosa fare in queste situazioni. Da queste cose sono nate le scuole, sui monti Nuba, sono nate le case per i bambini di strada, sono nate tutte le attività che vi dicevo. Direi che mi fermo qui, lascio parlare un po’ Gianmarco che spieghi un più in dettaglio i progetti, le cose che facciamo.

Gianmarco Elia. Io in realtà sono un fotografo, da ormai 12 anni. Prima ho avuto un’esperienza a Milano, per 6 anni ho lavorato con i ragazzi del carcere minorile e mi sono avvicinato alle storie dei bambini di strada. Conoscevo Kizito da molti anni perché nel ’87 e nell’88 ho passato due estati dove lui lavorava in quel periodo in Zambia: e così la nostra amicizia è iniziata in questo modo con un viaggio, che consiglio a tutti voi, di venire verso l’Africa e di cominciare così un rapporto (prima ancora di dare del denaro, prima ancora di aiutare, prima ancora di pensare a come fare per sostenere queste iniziative). Credo che, così, un rapporto umano, fatto da un incontro, faccia una bella differenza.

La nostra vicenda è iniziata così, alla fine del ’94, quando ci siamo ritrovati dopo 6 anni in cui ero rimasto immerso nel mondo della cosiddetta criminalità giovanile o dei cuori violenti giovani di Milano del carcere Beccaria: e abbiamo cominciato a pensare a come intervenire insieme con un gruppo di persone di Nairobi, che provenivano da tutto il Kenya, con qualche buon progetto educativo per i bambini di strada. Poi sono venuti i Nuba, come ha raccontato Kizito, ma soprattutto è venuta un’avventura, per persone come me. In quel periodo ho poi cominciato con la fotografia in modo professionale, oggi lavoro soprattutto per Repubblica, per la parte esteri, quindi ho ancora fortunatamente l’opportunità di viaggiare in molte parti dell’Africa e non solo. E trovo moltissima positività, energia straordinaria in ogni paese africano, dove se ci si mette insieme, se ci si allea, in qualche modo si può fare, senza importare dei modelli dall’esterno: si cerca di capire qual è il modello locale e di partire con loro, si possono fare delle cose che respirano a lunga scadenza e soprattutto si vanno a radicare sul territorio. E quindi ormai lavoro a metà tempo e mi sono lasciato coinvolgere in questa vicenda che è cresciuta con gli anni di Amani, di Koinonia, in questi progetti di cui vi abbiamo parlato o possiamo parlarvi; che in realtà non è stato tanto aiutare dei progetti africani a crescere, ma siamo cresciuti noi come persone umane e forse abbiamo capito qualcosa di più. L’Africa, nel mio caso, è stato un valore aggiunto nella mia vita più che aiutare qualcun altro, ha soprattutto aiutato me nel mio modo di quadrare le cose, di cercare di capirle e ha aiutato un po’ anche la mia umanità, credo. Indubbiamente mi ha aiutato come fotografo perché mi ha dato l’opportunità di raccontare i Nuba su tantissimi periodici, italiani e non solo, ma poi mi ha permesso molte volte di viaggiare tra di loro e questo è stato un bene straordinario, un dono straordinario.

Noi tentiamo di fare cooperazione in modo un po’ impopolare perché non veniamo qui con dei manifesti con dei bambini che stanno morendo dicendo che se voi non intervenite e non ci date dei soldi moriranno domani, cosa probabilmente vera: però secondo noi non si fa così, innanzitutto per una questione di dignità umana. Le persone in quanto tale vanno rispettate sempre e comunque, ovunque esse siano. Poi perché il tema dei soldi è un tema molto delicato che va trattato in maniera chiara soprattutto per raccogliere denaro che non è proprio ma che è altrui e quindi bisogna essere molto chiari, molto trasparenti. Il tema dei costi non è mai scontato ma per noi è un tema quotidiano perché appunto non è un fatto mai scontato e bisogna starci molto attenti. Non bisogna mai parlare male degli altri, mi insegnava mia nonna e mia madre dopo di lei, però io direi che una buona metà (me lo chiedevano oggi anche a Spoleto) di organizzazioni, anche italiane, se chiudessero domani, nessuno se ne accorgerebbe in Africa. Noi ci occupiamo più dell’Africa e parliamo di quello. Sono un po’ autoreferenziali, un po’ nate per se stesse e alla fine se fate un analisi dei costi vi rendete conto che ad esempio le grandissime Nazioni Unite, con tutta la potenza d’intervento che hanno, sono regolarmente (ormai direi dal ’90 in poi perlomeno, ma anche prima) inefficaci: nel caso delle grandi emergenze, se vogliamo guardare a quelle, arrivano sempre tardi, non intervengono mai in maniera tempestiva e , soprattutto nel caso dei conflitti armati, non riescono a porsi come forza reale di interposizione. Fra l’altro in questi giorni c’è sugli schermi italiani Hotel Rwanda che anche da questo punto di vista ci ricorda questo evento. Kofi Annan fu peraltro il principale responsabile del disastro rwandese, oggi è segretario delle Nazioni Unite, cioè come dire che in una struttura che sbaglia e continua a sbagliare e che costa l’80% dei fondi che ha disposizione, nessun funzionario viene rimosso, nessun funzionario che ha sbagliato gravemente viene spostato, anzi fa un bel avanzamento di carriera.

Detto questo, ci sono strutture pesanti e secondo me abbastanza inutili e bisogna proprio ripartire a pensare la cooperazione proprio come un rapporto umano tra persone, partendo da piccole realtà. E noi stiamo tentando, non senza problemi, con tantissime imperfezioni, perché non siamo così bravi, proprio di partire da questa idea e da un rapporto umano. È chiaramente una vicenda molto più lenta, possiamo incidere nella vita forse di qualche decina di persone, creando per loro delle occasioni: però ci sembra che sia una strada interessante da percorrere. Sicuramente lo è per noi e ci sentiamo un po’ meglio noi nel lavorare in questo modo, anche perché appunto ognuno di noi continua a mantenere (con fatica devo dire, perché l’associazione cresce, dopo tanti anni; oggi abbiamo una decina di gruppi, sparsi per l’Italia, che fanno un lavoro continuo, coordinati, non è semplice) il proprio lavoro e la propria professione, quindi dedicando tempo, energie, un po’ di denaro a questi progetti. Un incontro tra una società civile keniana, zambiana e sudanese e una società civile italiana e pensare insieme un modello, ripeto, un po’ impopolare. Però meglio fare un incontro con trenta persone che fare delle campagne che magari rendono un milione di euro, perché poi oggi purtroppo le organizzazioni ragionano in termini di resa, di fund-raising, così come viene definito. Oggi nascono delle scuole per le organizzazioni non governative del terzo settore (che è una realtà importante in Italia) per capire come raccogliere i fondi e come fare i soldi: cosa anche importante però, ripeto, che va trattata con delicatezza, perché il tema della raccolta fondi è diventato predominante, quasi una religione per le organizzazioni, mentre invece i temi portanti, quelli che dovrebbero essere discussi quotidianamente in un’organizzazione come la nostra, penso proprio che siano altri. Il denaro rimane certamente importante, perché senza denaro non si fa nulla: noi le case le abbiamo costruite, abbiamo strutture importanti, i bambini dormono in letti, con coperte, hanno persone che si occupano di loro in modo professionale, etc. etc. e questo costa. Però c’è modo e modo. E poi ci sono di mezzo le persone.

Niente, io non aggiungo molto, mi chiamo Gianmarco Elia, non l’ho detto, perché poi una delle cose che mi hanno insegnato in Africa è che innanzitutto ci si presenta. Vengo dal Gianbellino che è un quartiere di Milano e ho vissuto a Riruta, che è un quartiere di Nairobi, metà di questi dodici anni, circa sei mesi all’anno ormai. Vi ho portato in regalo la cosa più bella dei Nuba che sono delle bellissime immagini: i Nuba sono diventati famosi per questo, come diceva padre Kizito poc’anzi. Quest’anno noi abbiamo festeggiato, dire celebrato è quasi troppo importante, i nostri 10 anni di rapporto con i nostri amici Nuba, appunto 10 anni dal primo volo e lo abbiamo fatto con le foto straordinarie di un amico inglese, un fotografo molto noto nel suo paese, che è Davis Stewart Smith. Ogni anno noi realizziamo un calendario di autore, abbiamo ospitato fortunatamente nomi di fotografi di fama internazionale: Stewart Smith quest’anno ci ha donato le sue immagini, sono rimaste ancora alcune copie, non bastano per tutti ma io ve le regalo volentieri. Così vedete i Nuba, belli come sono! E grazie per essere venuti a passare una serata con noi e ascoltare temi non tanto popolari.

Gli ospiti rispondono alle domande e agli interventi del pubblico

Primo intervento. Volevo sapere qualcosa di più sul tipo di adozione che avete prima descritto e che adottate in Africa.

Secondo intervento. Una domanda sul Darfur. Diceva prima che la popolazione del Darfur non sapeva bene le cause che hanno portato alla guerra. Qui c’è un’altra persona che queste cause non le sa certo molto bene, quindi se è possibile avere un pochino più di spiegazioni.

Terzo intervento. Una domanda più generale e una più specifica. Vorrei sapere se la vostra associazione si limita ad un’opera di volontariato e assistenzialismo oppure cerca di influire in qualche modo e cambiare anche la situazione politica e sociale all’interno del paese, creando magari delle correnti di opinioni critiche ad esempio contro il governo (perché, come sappiamo, questi paesi non sono poveri paesi in sé, ma poveri anche perché sono sfruttati da un governo corrotto che detiene tutta la ricchezza, da multinazionali e affini, altrimenti questi paesi starebbero bene e anche la popolazione). E poi una domanda più specifica. Vorrei sapere che influenza ha avuto la religione e l’educazione cattolica, sulla cultura e sulle tradizione del popolo Nuba. E inoltre a padre Renato, lei da Cattolico, cosa ne pensa della posizione ufficiale della Chiesa che vieta l’uso dei contraccettivi e quindi divieto che come sappiamo in Africa è causa di milioni di morti anche per l’Aids. Grazie.

Gianmarco Elia. L’adozione l’abbiamo pensata collettiva perché ci siamo resi conto che c’è una visione dell’adozione a distanza pensata in molti casi (chiaramente non si può generalizzare) come un rapporto sbagliato. Spesso riceviamo telefonate di persone che, per il fatto che davano, a distanza, una mano a crescere un bambino, volevano sapere tutta una serie di cose personali su di lui, sulla mamma (che magari era ridotta in prostituzione), con anche tutta una serie di dettagli che non ci pare il caso di raccontare. Le storie personali, soprattutto quelle dolorose, vanno rispettate, sono patrimonio di una persona e non è giusto divulgarle in nessun modo. Inoltre era diventato un po’ anche un meccanismo faticoso, cioè il fatto che io ti do del denaro mi dà il diritto di sapere, di controllare la persona, di sapere il perché, l’origine, e allora perché la madre non fa questo, etc. Ancora una volta quella visione tutta personale che noi abbiamo, delle soluzioni a distanza, senza mai nemmeno aver conosciuto quei luoghi e quelle persone ed il come bisognerebbe fare. Quindi è un po’ faticoso di fondo.

In generale poi perché siamo abituati ad avere dei posti molto grandi, molto accoglienti, dove ad esempio la casa per i bambini di strada (che nasce come una casa per i bambini di strada) oggi è un centro dove al lunedì alla domenica entrano ed escono duemila persone: c’è un dispensario, c’è un gruppo di donne che fa una produzione di abiti, ci sono i gruppi che fanno microcredito, che è una banca di accesso per le persone che hanno un livello bassissimo di reddito; c’è un gruppo di produzione di artigianato con produzione diversa, con vari soggetti e varie capacità, c’è una scuola di meccanica, il dispensario, non so se l’ho detto, con un medico tra l’altro che ha fatto l’università a Perugia e parla perfettamente l’italiano. C’è una scuola di computer, c’è un mondo molto vasto dove c’è soprattutto una massa di persone, qualcuno ha nominato l’AIDS, che si presenta al cancello e che chiede ogni giorno un aiuto. E noi siamo una presenza nel quartiere direi quasi unica e il quartiere ha ottantamila abitanti. Sono città in realtà: noi pensiamo alle baraccopoli come dei quartieri forse sulla dimensioni dei nostri. Sono in realtà delle città, spesso molto più grandi della media delle città italiane: Kibera ha ottocentomila abitanti in pochi ettari, Mathare ne ha duecentomila. Tutta la cintura della città di Nairobi è fatta di città, di baracche dove vive la maggiorparte della popolazione. Per queste persone siamo un riferimento e, sulla base di un budget che viene richiesto ad Amani dal gruppo che lavora in Kenya, cerchiamo di rispondere.

E quindi le adozioni a distanza, le donazioni libere per quel progetto, vanno a rispondere alle varie esigenze, alle varie iniziative di quel progetto e di quella porta, di quel cancello a cui un sacco di gente bussa ogni giorno e ogni settimana. Una volta la gente veniva a chiederti, fino a pochi anni fa, magari un aiuto per mangiare perché non si mangiava in casa per una settimana. Oggi magari ti chiedono aiuto perché hanno un parente da seppellire in casa da sei o sette giorni e non sanno come fare per una bara o per un trasporto, per portare il corpo al villaggio d’origine e cose di questo genere. È cambiata un po’ anche la dimensione dell’aiuto e anche della richiesta. Ci sembra che questo vada giocato, se si può usare questo termine, con grandissima delicatezza e attenzione e quindi adottare un luogo, un progetto è forse meglio che voler avere un rapporto che poi non c’è, con un bambino che è lontano e con la pretesa della letterina. Un bambino a dieci anni deve giocare nel tempo libero che ha e studiare quando è a scuola e stare più sereno possibile, recuperare un rapporto affettivo con chi si sta occupando di lui, con dei genitori e dei parenti che andiamo a cercare, con cui cerchiamo di riallacciare dei rapporti; e non deve scrivere delle lettere finte che spesso poi sono costrette le suore a scrivere, o chi si occupa dei bambini pur di non perdere l’aiuto e il contatto con quella persona. Ma cosa ne sa del contesto che c’è qui e delle risposte che noi ci aspettiamo? E poi perché scrivere in maniera così forzata a qualcuno che gli sta pagando una scuola? Si crea un rapporto sbagliato e un meccanismo un po’ finto. Quindi andiamo forse in una dimensione più reale. Lasciamo che i bambini siano bambini finchè possono e noi facciamo quello che possiamo per mantenere la realtà così com’è.

Padre Regnato Kizito. Un esempio. Io ho avuto, sembra assurdo, una persona di Milano che un giorno mi ha chiamato tre volte al telefono, chiedendo di parlare con il bambino che aveva adottato. Quando finalmente alla terza volta il bambino, Moses, era presente e ha parlato con lui, io naturalmente gliel’ho passato. Il ragazzino, Moses, dopo mi dice: "Questo parla italiano, io non capisco mica!" E io allora:"Scusi, deve parlare inglese con il nostro ragazzino" "Ma come , non insegnate l’italiano?". Non è la nostra prima preoccupazione insegnare l’italiano ai bambini di Nairobi! A volte si innescano meccanismi veramente che poi diventano pesanti e difficili da controllare.

(risposta al secondo intervento) Allora, volevi saperi le cause del Darfour o del Sudan in genere? Ne parliamo in sintesi, perché è veramente complicato entrare nei dettagli. In Sudan, paese di grandi dimensioni geografiche, gli abitanti in totale sono solo circa tre milioni. Però in questo paese, e questa è una cosa che è un indice incredibile della diversità che c’è, si parlano almeno (normalmente si dice) 652 lingue diverse, e sono lingue diverse, non sono dialetti. E ad una lingua corrisponde una cultura, una mentalità, un modo diverso di vedere la vita, etc.etc. Questo ti da una prima risposta. C’è un pluralismo di culture, di religioni, di situazioni, che tutti i governi che si sono succeduti a Karthoum hanno visto come un ostacolo contro l’unità del paese e hanno visto come un incubo piuttosto che vederlo come una ricchezza, piuttosto che vederlo come una grande risorsa. E quindi ha fatto continuamente una politica di unificazione e di imposizione. Tutti devono parlare l’arabo, tutti devono essere Mussulmani, tutti devono vestirsi alla mussulmana possibilmente. Questa imposizione ha causato tanto malcontento e tante reazioni. Ci sono ragioni di origine storica, le genti del nord sono state per secoli gli schiavisti di quelle del sud. E la cosa è radicatissima. Per esempio per molta gente del nord, dire Nuba e dire schiavo è la stessa cosa, sono sinonimi. I Nuba erano gli schiavi per antonomasia. E questo è ancora profondamente radicato, è una ragione profonda di divisioni. Quindi alla base c’è una diversità culturale e delle ragioni storiche che fanno sì che sia stato un errore clamoroso mettere questi due gruppi di popoli in quello stesso contenitore che il colonialismo inglese ha chiamato Sudan. Una cosa forzata dall’esterno (come tutti gli stati africani), uno stato inventato dai colonialisti, seguendo delle logiche che non hanno niente a che fare con le logiche locali. Tantissimi dei problemi che ci sono in Africa derivano ancora da questi confini insensati. Una cosa che cito sempre ma che veramente da la misura delle ragioni per cui si facevano i confini: il confine tra il Kenya e la Tanzania, se guardate la cartina geografica, era una linea retta dal lago Vittoria al mare. Era una linea retta. Adesso è una linea retta che ad un certo punto fa una curva e poi torna a fare una linea retta perché gira intorno al monte Kilimangiaro, perché il Kilimangiaro era in Kenya (in quello che poi gli inglesi hanno chiamato Kenya). Quando la regina Vittoria ha avuto un nipotino che era il Kaiser della Germania, gli ha regalato il Kilimangiaro: allora hanno modificato il confine e sono andati attorno al Kilimangiaro perché la Tanzania era sotto i tedeschi. Cioè i confini venivano fatti con questi criteri. Questi sono le ragioni di tanti conflitti africani oggi. Diciamo che la ragione fondamentale in Sudan è, secondo me, una questione di diritti umani. Tra i diritti umani c’è anche il diritto alla libertà religiosa. Però fondamentalmente è proprio una questione di essere riconosciuti come persone che hanno diritti umani. I Sudanesi del sud, da quando c’è la dipendenza dal 1956, non hanno mai veramente votato, non hanno mai avuto veramente la possibilità di esprimere che cosa vogliono fare di se stessi. È quindi una questione fondamentalmente di diritti umani.

A rendere più complicato questo discorso si sono poi aggiunti gli interessi economici e soprattutto gli interessi esterni. Si è aggiunto per esempio la scoperta del petrolio nel sud nell’82-’83, che ha portato alla corsa al petrolio sudanese, e adesso anche alla corsa del petrolio del Darfur. Il governo ha annunciato 15 giorni fa che c’è il petrolio. Si è aggiunto il problema degli interessi di tutti i paesi vicini per la questione delle acque del Nilo. Voi sapete, si dice che le guerre di questo secolo, se ci saranno, si combatteranno per l’acqua. Per esempio c’è una convenzione, sconosciuta alla maggioranza della gente anche dei paesi che sono interessati, firmata nel 1959 (quando quasi tutti questi paesi erano ancora sotto i diversi poteri coloniali) che dice che le acque del Nilo sono riserva esclusiva dell’Egitto. Quindi il Kenya, che è un paese rivierasco del Nilo (perché il Nilo nasce dal lago Vittoria), tutti i paesi rivieraschi del lago Vittoria, più il Sudan e l’Etiopia (dove nasce il Nilo Blu) sono soggetti a questa convenzione che non permette loro di usare le acque del Nilo. Il Kenya che ha ragioni aride molto vaste vicino al lago Vittoria (e lo stesso vale per la Tanzania), non può usare le acque del lago Vittoria per irrigazione perché le acque del lago Vittoria appartengono all’Egitto. L’Egitto ha causato altre complicazioni opponendosi, per esempio, alla divisione del Sudan in due paesi, perché preferisce trattare con un paese a monte piuttosto che con due. Ci sono entrati tanti elementi di geopolitica e di economia internazionale che hanno contribuito a dividere piuttosto che unire, a creare una corsa alle ricchezze del Sudan. Per gli interessi occidentali, se entriamo nei dettagli, negli ultimi dieci anni, la Francia è sempre stata al supporto del governo di Karthoum. Le compagnie francesi hanno scoperto il petrolio nel sud del Sudan alla fine degli anni ’70 e hanno sempre mirato a controllare le stazioni del petrolio. Poi sono subentrati i Cinesi. Le alleanze in queste cose cambiano. Quando c’era Numeiri, che era un regime a Karthoum estremamente repressivo, gli Americani erano alleati con lui. Negli ultimi dieci anni sono stati invece alleati con il movimento di liberazione. La storia del Sudan in questo senso è estremamente complicata perché le alleanze sono cambiate mille volte. Ad un certo punto, 3-4 anni fa, prima che si firmasse il trattato di pace, il petrolio era estratto da un insieme di compagnie: i Canadesi fornivano le tecnologie e hanno fatto gran parte dell’oleodotto, i Cinesi, i Malesi. Sono entrate all’ultimo momento e poi sono uscite quasi subito le compagnie statali dell’Austria e della Svezia. Cioè tutto il mondo! Il problema non era un problema politico, il problema era riuscire a mettere le mani su questo petrolio. Gli Americani, perché sono intervenuti pesantemente perché si facesse la pace? Meno male per la pace, no! Ma perché con la guerra, loro si erano trovati alleati al movimento di liberazione ed erano esclusi dal petrolio, perché il petrolio era nelle zone controllate dal governo. Allora hanno forzato a tutti i costi la pace e adesso arriveranno anche le compagnie americane. Quindi c’è tutto un intreccio di problemi. Lo stesso per il Darfur: la guerra del Darfur, secondo me, è stata voluta da chi non voleva la pace, come certe forze al governo di Karthoum, come probabilmente i Cinesi, perché la pace vuol dire che arriveranno anche gli Americani e inevitabilmente si prenderanno anche loro una grossa fetta. A questi erano alleati alcuni signori della guerra del sud, perché la fine della guerra vuol dire la fine dei loro introiti, hanno semplicemente voglia che la guerra continui per continuare a vivere sulla guerra. Questa è gente che ormai ha fatto la guerra per venti anni e se questa finisce perdono tutto il potere. Quindi c’è una serie di interessi tutti molto molto complicati che stanno giocando in Sudan.

(risposta al terzo intervento) Non so se ho capito bene la domanda sull’influenza del Cristianesimo sui monti Nuba. Direi che l’influenza è molto piccola al momento, nel senso che i Cristiani restano una minoranza e quindi non hanno una voce determinante in nessun campo per quanto riguarda i Nuba. Restano una minoranza, significativa, impegnata. C’è, probabilmente tra i Cristiani, una percentuale più alta di giovani istruiti, perché valorizzano e tengono di più alla scuola, però comunque non è una minoranza che ha una voce forte. Per quello che riguarda la posizione della Chiesa, direi che ci sono un po’ di miti da sfatare. Prima cosa mi sembra un po’ esagerato dire, come pure si legge normalmente sulla stampa italiana, che migliaia o milioni di Africani muoiono perché la Chiesa è opposta all’uso dei preservativi. Prima di tutto, la Chiesa chiede la fedeltà coniugale e chiede l’astinenza a chi non è sposato. Quindi chi dovesse seguire l’insegnamento della Chiesa, non si mette a rischio di Aids. Questo è quello che insegna la Chiesa. In secondo luogo, probabilmente la Chiesa non ha questa influenza e questa capacità di determinare le scelte degli Africani che stranamente le si attribuisce quando si parla di questo argomento. Non credo che ce l’abbia. Ci sono anche lì tante cause concorrenti, molto più complicate di quello che abitualmente si dice. Per esempio, ne nomino qualcuna che mi viene a mente a caso, le avevo un po’ elencate nel libro “La perla nera”. Per esempio, in Kenya la tribù più devastata (il popolo, diciamo, perché poi è un popolo di almeno 4 milioni, forse 6 milioni di persone) dall’Aids sono i Luo. Addirittura i Luo erano il secondo popolo numericamente del Kenya ma il crollo è stato così grande che oggi sono il terzo. Hanno veramente ricevuto una batosta tremenda dall’Aids. Per quale ragione? Perché abitualmente, anche quelli Cattolici (e questo dimostra che per esempio che l’insegnamento della Chiesa non è poi così determinante come si presume) i Luo applicano il levirato, come nell’antico testamento: se un uomo muore, la moglie o le mogli vengono ereditate da uno dei fratelli, con leggi, regolamenti, etc. Ora cosa succede se un uomo muore di Aids? È molto probabile, se ha una moglie o due, che esse siano infette, siano seriopositive e passano al fratello minore. Il fratello minore diventa seriopositivo e così via. Interi villaggi sono scomparsi nel giro di pochissimi anni per questa logica e non ha niente a che vedere con l’insegnamento della Chiesa.

Un altro fattore culturale che ha giocato è che gli Africani, ancora adesso, nei villaggi, fanno una grande fatica a credere che un’azione che tu fai oggi possa avere come conseguenza una malattia che ti colpisce tra cinque anni o dieci anni. La mentalità africana, la cultura africana è una cultura che è molto sofisticata nelle relazioni con il passato ma è rispetto a noi molto più schematica nelle relazioni con il futuro. Questo lo vedi dalle lingue, se tu prendi le lingue africane vedi che per esempio spesso hai 10, 12, 15 modi per parlare del passato: nella lingua kikuio addirittura mi dicono che ci sono quasi 80 modi per parlare del passato, cioè c’è una modalità verbale che se tu la usi fai capire al tuo interlocutore per esempio che adesso mentre sto parlando è mattina e il fatto a cui mi riferisco è dell’altra sera. C’è una precisione incredibile quando si parla del passato. Quando si parla del futuro ce n’è uno solo, e il futuro finisce per quasi tutti i popoli alla prossima stagione delle piogge, non va più in là. Quindi culturalmente per esempio è molto difficile che gli Africani, quelli che vivono nella cultura tradizionale, piantino alberi. L’albero da frutto che dà frutto tra cinque, dieci anni. È un ‘eternità, non puoi controllarlo, sarai morto, non si va aldilà della prossima stagione delle piogge. Questo ha creato un’enorme difficoltà a far capire gli effetti dell’infezione, del diventare serio positivi che può provocare la morte dopo qualche anno di una persona. Non è visto come credibile, ancora oggi, da moltissime persone. Ci sono tutta una serie di barriere che hanno giocato contro questo, purtroppo, e che veramente sono state devastanti nella diffusione dell’Aids.

Tra l’altro queste barriere dimostrano tutto sommato, che dire che l’insegnamento della Chiesa sia così drastico contro l’uso del preservativo è tutto da discutere: la Chiesa è molto più sfumata su questo, perché alla fin fine si dà la priorità alla coscienza della persona. Quindi il confessore, il padre, può tranquillamente insegnare ad una coppia che tu, in coscienza, se credi che questo sia giusto, fai questo perché è giusto per te. Nel tuo va bene così, come è stato detto anche pubblicamente da diversi vescovi in Africa. Dunque la situazione è molto complessa e io starei molto attento ad attribuire all’insegnamento della Chiesa la responsabilità dei morti di Aids. In realtà ci sono delle cose di interpretazione controversa. C’è una recente polemica sull’interpretazione di alcune recenti statistiche che sono state fatte in Uganda dove sembra, secondo alcuni, che il crollo della percentuale di infezioni che c’è stato in alcune zone dell’Uganda negli ultimi anni, sia dovuto ad uno sforzo delle chiese (non solo della Chiesa Cattolica) di formazione dei giovani ad una più attenta gestione della loro sessualità in una chiave di valori cristiani. E lì c’è stato un crollo di infezioni. Alcune statistiche non sono del tutto d’accordo, c’è una polemica su questo. Hai per esempio chi non vuole interpretare a favore dell’insegnamento della Chiesa questo crollo di infezioni in Uganda, vale a dire le grosse compagnie che vendono i preservativi e che ti fanno venire qualche dubbio che siano loro che abbiano qualche interesse a vendere i preservativi e a promuovere una forma di mancanza di educazione sessuale vera: la soluzione proposta usa più preservativi possibile, così facciamo gli interessi di chi li produce. Sono cose molto sfumate, molto delicate.

Intervento pubblico. Volevo aggiungere qualcosa su questo tema. Io sono Shanti, studio adesso a Perugia però sono cresciuta in Africa, vi ho passato 13 anni e 6 e mezzo di questi anni sono stati in Swatziland, che per quelli che non lo dovessero sapere è un microscopico paese tra il Mozambico e il Sudafrica. Allora, i dati ufficiali, che ho letto proprio l’altro giorno, sull’Aids e sulla seriopositività in Swatziland, ufficialmente davano il 38% della popolazione infetta, più probabilmente si parla di circa il 43%. Metà della popolazione morirà nei prossimi anni. In Swatziland c’è un regno, una monarchia assoluta, c’è Mswati III e sono pochissimi anni che Mswati III ha finalmente detto, ragazzi questa malattia esiste. Quando eravamo noi lì, all’inizio degli anni ’90, mia madre faceva educazione sessuale con le donne e lì c’erano molte difficoltà anche a causa delle tradizioni: in Swatziland si pratica ed è molto diffusa la poligamia, il re ogni anno sposa una nuova moglie (è una cosa molto folkloristica, piace tanto ai turisti!). E le donne dicevano:"Tu stai dicendo bugie perché sei gelosa, il nostro re ci ha detto che questa cosa non esiste". C’era una grandissima epidemia di tubercolosi nel paese, i più morivano per tubercolosi. E poi un giorno, una donna è andata da lei e le ha detto: "Senti, se quello che tu ci dici è vero, noi qui moriremo tutte. Perché noi non possiamo dire di no ad un uomo, non è nella nostra tradizione, non è nella nostra cultura dire di no". Ora in Swatziland direi che circa il 60% della popolazione appartiene a chiese cristiane, protestanti, metodiste, battiste. E poi c’è una minoranza cattolica. Questo dimostra proprio che andare a dire che la Chiesa Cattolica centra in questo genere di diffusione, almeno questi livelli, è forse una cosa non esatta.

Padre Renato Kizito. Interessante il caso dello Swatziland e anche il Lesotho, che addirittura, ho sentito recentemente un dibattito a Nairobi, si teme che scompaiano. Ci sono famiglie ormai che sono composte dal fratello maggiore di 14–15 anni e due-tre fratelli più piccoli. Si teme la loro scomparsa e con loro scomparirà la cultura tradizionale, perché non c’è più la trasmissione da una generazione all’altra.

Gianmarco Elia. C’era una domanda su come ci poniamo noi con le autorità politiche, a quali livelli si propone la nostra azione. Sicuramente uno, lo ripeto, è il livello di redazione, con chi lì sta lavorando e ha pensato i progetti e chi lì viene accolto e chiede un aiuto. Questo è la priorità per noi. Poi dobbiamo stare un po’ attenti, perché se così tanto parliamo dei mal governi africani che per l’amor di Dio ci sono, ci sono stati dei casi in cui probabilmente i leader africani si sono qualificati tra i peggiori al mondo: però io avrei come cittadino italiano una lista di 25 o 30 politici degli ultimi 30 anni, potrei snocciolare i nomi senza difficoltà, di cui vergognarmi assolutamente. Detto questo, dovremo ricordarci anche di figure di assoluta grandezza, come per esempio Nelson Mandela, che aldilà forse di qualche aspetto che qualcuno ha posto in maniera così tanto ideologica, è stata veramente una figura di primissimo piano: uno che, dopo una vita quasi, o metà della sua vita passata in prigione, non ha mai alimentato nessun segno di rivalsa, si è fatto da parte dopo un mandato, ha incoraggiato il successore, cioè ha fatto tutto quello che credo il 95% degli uomini politici del mondo abitualmente non fanno. Lui è arrivato al potere, ha detto le cose che aveva da dire, ha tentato di mettere in pratica quello che voleva mettere in pratica dopo una vita in prigionia, in cooperazione in qualche caso con chi lo aveva imprigionato e alla fine del suo mandato è andato a casa. Quando è stato ricevuto in Inghilterra (qui da noi non è stato trattato in questi termini), la stampa britannica diceva che l’unica figura reale presente in quel momento nella nazione nel Regno Unito era quella di Nelson Mandela, senza attribuire nessuna regalità alla regina. Quindi probabilmente io direi l’uomo politico, in assoluto, più grande del ‘900, su questo io non ho dubbi, almeno personalmente. Oltre lui, ci sono stati anche molti altri leader positivi. Comunque non neghiamo i problemi, ma ricordiamo anche le figure che il continente ha avuto.

Detto questo, c’è stata per esempio, organizzata da Koinonia, con alcune persone, la marcia della pace a Nairobi, che è un tema che voi conoscete bene qui dalle vostre parti, e che lo scorso anno, nel settembre del 2004, è arrivata alla quinta edizione e ha visto la partecipazione del vice-presidente. Cioè si tenta di respirare, dove si può, con la società civile e di coalizzarla, di metterla insieme, e là dove è possibile, di coinvolgere anche le autorità locali: non è facile, perché poi la dimensione dei problemi, nei paesi africani, lo abbiamo visto, aldilà dell’Aids, è effettivamente su larga scala e largamente legato alla povertà materiale. Quindi i problemi sono molteplici. Però a me pare che il gruppo di Koinonia sia un gruppo molto interessante proprio perché tenta di agire a livelli molto diversi. Non abbiamo detto niente stasera del livello della comunicazione, c’è un gruppo, direi eccellente, di giornalisti che lavora in un progetto che si chiama “News from Africa”, che aggiorna le pagine in internet da Nairobi, che sta aprendo un portale che coalizza e coalizzerà decine di organizzazioni che lavorano per i diritti umani e che dall’ Africa proporrà una voce autenticamente africana di soluzioni, di proposte, ma soprattutto di analisi e di riflessione, fatte da chi quei paesi li conosce e non da noi qui. Voglio dire, mi pare che i Koinonia agisca davvero a molti livelli. Comunque la priorità rimane un livello di intervento, di progettualità e di risposta ai bisogni della gente, non certo l’intervento politico.

Padre Renato Kizito. Poi bisogna sottolineare che c’è tanta società civile in Africa, dappertutto, che qui non viene raccontata (sarebbe troppo lungo ora andare a parlare di questo) che però esiste ed è attiva, in paesi diversi, a livelli diversi. In Kenya credo di poter dire che sia molto attiva, la marcia della pace, le scuole per la pace, le attività per la giustizia, i seminari, gli incontri, è una società molto viva da questo punto di vista.

Gianmarco Elia. Consiglio Perla Nera, l’ha scritto tre anni fa Kizito con la collaborazione di un coautore, a me pare che tratti molti argomenti della cooperazione internazionale, dall’Aids al rapporto tra le chiese, anche con i danni che le chiese hanno fatto nel continente africano e anche ad esempio l’atteggiamento di una certa classe politica. Tocca molti temi, secondo me, riguardo il continente, interessanti e trattati in modo intelligente. Attira poco da un punto di vista della grafica ma ha grandi contenuti!

Intervento pubblico. Casualmente ho letto che in Africa una delle malattie più diffuse e che è causa di mortalità, forse ancora più dell’Aids, è il diabete. È vero oppure è una notizia inventata? Mi ha stupito, perché da noi il diabete è curabile: lì mi hanno spiegato che non si cura perché non hanno l’insulina e quella che viene donata viene poi importata dalle multinazionali.

Padre Renato Kizito. Onestamente non so le statistiche ma certamente è un grosso problema. Come pure stranamente è un grosso problema l’ipertensione, mentre è un problema meno grave che da noi, notevolmente meno grave, il cancro. Però non sono un esperto in questo campo. Noi abbiamo un medico keniano che viene nel nostro dispensario, che ha studiato qui a Perugia, e fa un servizio straordinario. Quando io ho bisogno di sapere le notizie di quel tipo lì, le chiedo a lui, ma stasera purtroppo non è qui!

Gianmarco Elia. Comunque l’Africa è un campionario di malattie assolutamente curabili per cui si muore, questo indubbiamente sì! Riferendosi al caso dei Nuba, non mi ricordo se il primo o il secondo viaggio, ci fu un’epidemia dove morirono 3000 bambini per il morbillo. A me sembrava di essere sceso sulla luna. Quando sono tornato a casa e l’ho raccontato, la gente ti riempiva le tasche di soldi (ma non è nemmeno così che si fa), fece una grande impressione a me e alle persone attorno a me. Qualcuno dice che il vaccino della malaria ad esempio c’è, però non viene commercializzato perché comunque la gran parte dei fruitori in realtà non la può pagare (come lo si dice anche per l’Aids). Abbiamo un padre gesuita americano, vicino a Clinton, vicino a moltissima stampa di primo livello americana, uno che le informazioni le ha e le conosce bene: lui è sicuro di questo e lo dice con certezza. Non ho ancora sentito nessuno che ha contraddetto D’Agostino. Non c’è bisogno di far troppa dietrologia, però è veramente una campionario di malattie curabili per cui la gente muore. E poi non si sa nemmeno il motivo, perché non c’è la possibilità di far nessun tipo di diagnosi in gran parte dei posti.

Per quanto riguarda l’Aids, giusto per ricordarlo, io ero vicino a quegli ambienti in quel momento come impegno: qui da noi si negò per molto tempo l’esistenza dell’Aids, ad un certo punto si cominciò a dire che era la malattia dei gay, poi dopo di quello si disse che era la malattia dei tossicodipendenti, e infine la malattia degli eterosessuali. Quindi abbiamo avuto anche noi un lungo percorso per riconoscere il nostro rapporto come società occidentale con questo virus. Qualcuno diceva che poi ovviamente era nato in Africa e veniva da là, e quindi che loro ci diedero questo bel regalo. Però nessuno la mai dimostrato.

Intervento pubblico. Senta padre, volevo sapere qualche cosa sulla sua esperienza più prettamente cristiana, su come ha portato il messaggio di Cristo a queste popolazioni. Quale è stato il suo approccio di Cristiano, sappiamo che il Cristianesimo si basa sui due pilastri dell’amore a Dio e dell’amore al prossimo (e dell’amore al prossimo abbiamo ampiamente discusso)? Quale è stata la sua esperienza di Cristiano che ha portato il messaggio di Cristo a questi popoli e a queste popolazioni?

Padre Renato Kizito. Noi abbiamo portato spesso un Cristianesimo fatto di catechismo insegnato a memoria, un Cristianesimo fatto di cose già cucinate da noi, da cose che sono cresciute nel nostro ambiente e nel nostro humus culturale: e le abbiamo un po’ imposte, facendo spesso gli stessi errori che erano stati fatti allo stesso livello dai colonialismi: mi viene in mente un’episodio, c’era un padre in Kenia che veniva dalla Campania e portava devozione alla madonna di Pompei! Queste sono cose che mi sembrano un po’ forzate. Io sono partito dopo un po’ di esperienza e ho sempre cercato di lavorare sul principio di portare i valori fondamentali. Uno di questi valori è ad esempio l’incarnazione, Dio che si fa uomo e quindi la dignità della persona umana, i valori della persona umana. Quindi la radice di tutto è nel Dio che si fa carne.

Nella trasmissione di questi valori, uno in Africa ha un grande vantaggio: si trova di fronte ad una religione tradizionale e quando la religione tradizionale magari non c’è più, resta tutta la spiritualità tradizionale che è molto simile all’Antico Testamento. Come nel caso che citavo del levirato. Gli Africani intuiscono, non hanno bisogno di esegesi per capire, perché la loro vita è così: sono vicinissimi all’Antico Testamento. Quindi il passo dall’Antico Testamento al Nuovo, al capire il Vangelo, a capire il fatto che Dio si è fatto uomo, diventa per tutti noi la liberazione e la dignità che crea nella persona umana: e capire questi valori è relativamente facile, perché sono già sulla strada, sono preparati come erano preparati gli Ebrei dell’Antico Testamento. Questo secondo me spiega anche il fatto che in Africa ci sia stata una conversione al Cristianesimo che è storicamente la più grande che ci sia mai stata nella storia della sua diffusione. Non solo numericamente, perché potrebbe essere facile (oggi siamo molti di più di quanto fossimo mille anni fa), ma proprio a livello percentuale: se voi guardate l’Africa dell’anno 1900, probabilmente non c’era l’uno per cento dei Cristiani. Se voi guardate l’Africa del 2000, i Cristiani sono oltre il 50%. C’è stata un’esplosione in un secolo. Perché questa risposta? Perché c’è questa preparazione e non perché, come a volte si pensa qui nel nostro senso di superiorità, ci si è abituati a giudicare gli Africani come sempliciotti, come bambinoni: gli Africani sono ben consapevoli delle scelte che fanno. Non fanno scelte a caso, per aderire ad una religione devono essere convinti, devono fare una scelta personale. Quindi se hanno fatto questo passo, è perché c’è tutta una preparazione forte, c’è una spiritualità forte; tradizionalmente il senso di dio, della presenza di dio nel mondo è fortissima. Dio è unico, è grande, è padre ed è presente e voi sentite le mamme dei villaggi che salutano i bambini al mattino, nominano Dio, augurano la benedizione di Dio ma come una cosa sentita e profonda. Per cui questa adesione è spesso un’adesione sincera, come è avvenuta in tanti altri popoli. E adesso vediamo delle cose di ritorno, nel senso cioè dei ragazzi africani che sono venuti in Italia, tornano indietro e dicono: Dio non c’è più per voi. Non lo si nomina più. Uno può stare a guardare la televisione per 24 ore e non sente mai nominare Dio. Questo è impensabile in Africa, la presenza di Dio, il senso della presenza di Dio lo si percepisce in mille modi. Mi ricordo anche un ragazzo, Michael, è stato su un mese in Italia; la prima volta che è venuto, ha fatto un corso d’informatica in un’istituzione legato ad un centro di ricerca a Roma e viveva in una pensioncina a fianco delle mura vaticane. E lui, la sua sensazione: "Ma qui Dio non c’è più, dov’è che l’avete messo? Non ne parlate più, non esiste più". C’è questo grande senso della presenza di Dio.